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Paola Loreto

Paola Loreto è nata a Bergamo e insegna Letteratura americana all’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato case | spogliamenti (Aragno 2016), In quota (Interlinea 2012), La memoria del corpo (Crocetti 2007), Addio al decoro (LietoColle 2006), L’acero rosso (Crocetti 2002), le plaquette Spiazzi dell’acqua e Ascesa (pulcinoelefante 2008 e 2018), e Avola (Volo) (Luciano Ragozzino, 2019), le sillogi Conoscenza della neve (Poesia, gennaio 2012) e Transiti (Almanacco dello Specchio Mondadori 2009), oltre a una silloge di poesie sulla montagna (Premio Benedetto Croce 2003) e numerosi testi in rivista e in volumi collettanei. La sua poesia è stata tradotta in inglese, spagnolo e polacco. È stata poète en residence al Centre de Poésie et Traduction della Fondation Royaumont (Parigi). Ha pubblicato studi sulla poesia di Emily Dickinson, Robert Frost e Derek Walcott. Traduce i poeti americani e collabora con varie riviste di studi americani italiane e straniere.

Credo che il rapporto tra la poesia e il camminare sia profondo. Se pensiamo al camminare come al movimento del nostro corpo, che mette a sua volta in moto un meccanismo fisiologico complesso, questo rapporto appare ancora più importante. Non è l’unico, ovviamente, a influire sulla scrittura, ma per molti scrittori è uno degli essenziali. 

Lo ricorda bene il poeta statunitense Archibald Randolph Ammons, che amava camminare e che su questo argomento ha scritto un bel saggio, Poetry Is a Walk (1968), nel quale paragona, per l’appunto, la poesia a una camminata. Entrambe, ci dice, impiegano e coinvolgono l’intera persona: non solo la mente ma anche il corpo. La poesia ha un corpo, e cioè ritmo, sentimento, suono; e il ritmo con cui un poeta cammina, e pensa, influisce, con la misura naturale del suo respiro, sulla “fisiologia” della poesia che scrive. In secondo luogo sia le nostre passeggiate sia le nostre poesie non sono mai riproducibili in maniera identica, anche nel caso che copriamo lo stesso percorso: le influenza il paesaggio, l’aria che respiriamo, l’umore che ci abita, gli incontri che facciamo. Pensiamo e sentiamo in modo diverso perché ogni momento della nostra esperienza è diverso. Inoltre entrambi la scrittura e il camminare contemplano delle svolte, e dei ritorni, che ne delineano la forma. E il loro movimento va vissuto, nel corpo: ne va fatta l’esperienza fisica, perché non lo si può fruire astraendolo e contemplandolo, o riducendolo a una pura logica di pensiero. La forma dell’intelligenza di una poesia non è solo tale – logica, per l’appunto, o lineare, discorsiva. Ammons cita Lao-tse, a epigrafe del suo pezzo, che dice che “nulla che possa esser detto a parole vale la pena di esser detto”, e cioè: la fonte del linguaggio poetico è subconscia, nell’alchimia felicemente misteriosa di quello che accade dentro la mente-corpo della nostra persona, che accoglie, in una sintesi simultanea, pensieri, emozioni, affetti e impulsi istintivi.

Il mio camminare è sempre stato l’occasione di pensare le cose da una certa distanza, che mi consentisse di vederle lucidamente, e di ascoltare la voce della mia mente-corpo. Mentre cammino, le scelte – di vita, di scrittura – si fanno evidenti, cristalline. Si spogliano di tutti i falsi condizionamenti, perfino di quelli che le mie emozioni meno salubri hanno costruito per limitare la mia libertà morale. Lo sguardo si fa limpido e vede l’essenziale: quello che c’è. L’energia è convogliata verso i gesti necessari. 

Se poi il camminare è in montagna, cioè è un’ascesa, come mi capita spesso, e in solitaria (come vorrei mi capitasse più spesso), allora la rarefazione aumenta, e il potere dell’esercizio fisico, col suo rinnovato sguardo sulle cose, aumenta. È anche una questione di orizzonte: di spazio, di visuale, e di solitudine (e silenzio). 

Camminare è porre attenzione. La poesia è attenzione. Forse è questo che Ammons voleva dire quando conclude il suo pezzo sulla poesia-camminata dicendo che entrambe non servono in fondo a nulla: solo all’essenziale del nostro stare al mondo, da soli e con gli altri – dei nostri modi di provare a dargli una forma, a riempirlo di senso. 

                                                                                     Paola Loreto    

Far giornata

È stato come
le altre volte. Ho bucato
la nebbia su per il monte
dove gela la pelle in superficie
se sudi. Ho ascoltato
il cuore palpitare
sui sassi.
Mi tenevan compagnia,
come al solito, i corvi.
Volano neri e superiori,
con rare grida improvvide
e molta stasi nel planare.
La sete e la fame hanno
nuove papille, in alto.
E poi c’è il tempo
e la pazienza di calare.
La danza delle anche
che han mangiato il moto.
E poi il riposo: il calore
che emana la carne
asciutta e intenerita.

da L’acero rosso, Crocetti 2002

Ascesa al monte

Non s’ode
il sono
che scaccia
le vipere.
Batte la lingua
loro e impala
le dita il gelo
e le scrocchia.
La roccia
ha più buio
dei sassi che
centellinano
luce. Ma beve
le suole l’acqua
che corre
a valle. Vagabondare
è rude
e dolce. Ma monte
è morte
se non paghi cura
alle offerte porte.

C’est toi,
que j’entends derrière moi?
(Ce sont tes pas?)

Non oso
chiedere il nome
di chi non si muove
e tace.

(da L’acero rosso, Crocetti, 2002)

Il solito giro

C’è un posto
che vado a ascoltare
che è tutto
bianco. Se guardo
in alto, però,
vedo blu.
Sta ritto il San Cristoforo
e piatto (un po’ pallido)
sulle pietre oltre l’acqua.
Pigolano lucciole
nel nero le ali novelle
incerte sospese nell’aria
dov’era la capanna
del taglialegna. Mi guarda
la roccia e tiene
le sue voci.
Ma la sento se corre
la lepre di neve.

(da L’acero rosso, Crocetti, 2002)

Attraversata in quota

Rifugio Gnifetti (Lyskamm)

La lirica è natura.
La stessa che mi abita
se metto con cura
un passo dietro l’altro
sull’aerea e affilata
cresta est del Lyskamm
orientale sul Rosa
che è rosso all’alba
sugli assi e le panche
del ponte, capanna
Gnifetti, tremila
seicento undici
metri di altitudine.
Lo spazio è esiguo tra
due abissi di errore e
non puoi sbagliare: è
la fine del respiro
ispirato di luce
in perfetto equilibrio
tra il bianco e il blu.
C’è solo un istante,
una posa, una dose
di forza e coraggio,
una presa alla picca
e una lucida mente
(chiara di spazio, silente)
per cogliere il moto
che compie la stasi
e la stasi che muove
avanti, in alto.
È un io che risponde
al suono del vento
chi sa come farsi
di pietra sulla pietra
di neve nella neve
d’aria nell’aria
e nota di canto
elevata all’evento,
distinta, adeguata.

(da In quota, Interlinea, 2012)

Indovina il vento

Il cielo è la tua volontà.
Quando piove, non vuoi che vado.
Quando è bello, non c’è neppure
bisogno di prendere l’ombrello:
sarà un giorno di cammino.

Fammi sapere quando devo andare
anche se tutti tornano di paura.
Fammi sapere se devo restare e
rinunciare perché credo verranno
altri giorni ebbri di luce,
e non appare normale.

Tu sai dove mi porti, io so i passi
e che la meta non fallirà il segno
memorabile. La stanchezza è mero
sintomo. Così l’essere male. La gioia
e il libero respiro segnalano la via.
Le cose cambiano. Il cielo è sgombero
e poi non lo è più. Le nubi corrono.

(da In quota, Interlinea, 2012)

DUE INEDITI

Ad interim

La Grigna

Questo pezzo me lo ricorderò
di vita. Il sabato mattina
la sveglia appena posso
zaino e tè nello zaino
chiavi auto banana
soldi benzina cell
e bastoncini
le scarpe da running
le ho già su e da Carsana
non si offendono
se sono sfondate
e addento la brioche
più fragrante del nord.
Alla crema
per rigore
& caffè americano
per rigore.
Lo hanno imparato
anche loro:
bollente
da ustione.
Sono le salite in solitaria
in Grigna (settentrionale)
dove vige la luce
se non piove. Salgo sola
e incontro gli altri
in cima. Tutti giunti.
C’è quel tempo
che non conta
in alto sulla panca
fuori dal Brioschi.
Fulvio viene a scrutare
chi sale. Se son tanti e se c’è
da buttare la pasta.
Se qualcuno non ce la fa.
Claudio fa un panino
buono e fresco per la Eli.
Io li guardo e li ascolto.
Sento l’aria, il cielo
il colore la temperatura.
La voce che mi parla
ma non so cosa dice
perché è pieno di umani
qui che raccontan di montagna.
Poi si scende
e non sono più sola.
Ma lo so che mi piace
salire in solitaria
con le orecchie
e le narici aperte
l’animale che sono
che mi pulsa nelle vene
alle tempie ai polsi
e dice sì. Sì.
Ora e sempre.

Rifugio Brioschi

Sono nata altre volte (due)

all’ombra fresca
dell’acero rosso
d’indelebile memoria.
La prima era la casa
di Jonah la gabbia d’oro
di un corpo appena nato.
La seconda la seconda
e prima vera vista
di camosci su un crinale
a dodici decimi
e trenta e rotti anni.
Il corpo ritrovato.
Adesso ho questo,
restituito, perché posso
muovere un passo
e poi un altro
quasi non fossi mai
morta e non dovessi
morire ancora.
Il piede non vacilla
il ginocchio non trema
l’anca sospinge il peso avanti
come non fosse tale.
Non sento il male,
l’inerzia, il confine.

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