Cari Amici,
vorrei condividere questo bell’intervento sul mio libro.

“Erano le ombre degli eroi” è una silloge estremamente complessa, lunga, articolata e soprattutto ricca di spunti e di tematiche. La silloge ruota intorno al mito e la scelta del tema è un grande atto di amore nei confronti della cultura classica ma anche nei confronti di un professore, di un bravo maestro, mi verrebbe da dire, quelle figure che ci hanno segnato nel corso della nostra esistenza e che in qualche modo hanno incanalato i nostri interessi, la nostra sensibilità. “In erano le ombre degli eroi” seguiamo, lirica dopo lirica, il passaggio del mito, come diceva Cesare Pavese, dalla sua fase iniziale, di fanciullezza, alla piena maturità. Quando raggiunge la sua piena maturità? Nell’ introduzione ai Dialoghi con Leucò, Pavese ci ricorda che, nel momento in cui il mito che fa dialogare il cielo e terra, generativo, eziologico, che spiega o cerca di spiegare chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, si rinnova nella quotidianità, diventa voce del mondo nel quale noi viviamo, delle contraddizioni che quotidianamente attraversiamo, abbraccia la pienezza della crescita. Ed è quello che fa Donatella Bisutti, è quello che hanno fatto grandissimi autori da Kafka a Pascoli, da Gabriele D’Annunzio a Pavese, appunto, a Ritsos. C’è un libro meraviglioso – Quarta Dimensione – in cui le figure femminili della tradizione classica diventano le donne di tutti i giorni che sono al nostro fianco anche nelle loro battaglie, nella loro quotidianità. Ebbene tutto parte nell’opera di Donatella Bisutti da Cadmo che va alla ricerca di Europa, la sorella Europa che è stata rapita da Zeus. Cadmo, mandato dal padre, incomincia ad inseguirla fin quando, sollecitato dall’indovino, si lascia guidare da una giovenca bianca. Dove si fermerà la giovenca, ed è uno dei tanti miti fondativi, dovrà costruire una città, Tebe, la città delle utopie, dai tanti templi, bella, splendida, affascinante, l’inizio della nostra cultura occidentale, quella alla quale sono legati alcuni dei miti più significativi di tutta la tradizione occidentale. Sicuramente quello di Edipo, di cui Aristotele ci dice nella sua Poetica che è l’eroe per eccellenza della tragedia perché non è del tutto innocente né del tutto responsabile, perché è vero ha ucciso il padre e ha sposato la madre Giocasta ma senza averne lucida consapevolezza. Ebbene il suo destino è indissolubilmente legato a quello di Tebe, che, volendo parafrasare il personaggio di uno dei romanzi di Kafka, il conte “ West West”, diventa West West, incarnazione del nostro mondo. E allora vediamole le contraddizioni di Tebe, del nostro orizzonte storico, geografico, del nostro West West. Edipo nasce nonostante un atto di violenza esercitato, come narra Euripide all’interno delle “Fenici”, da parte di Laio nei confronti di Giocasta, una donna, come tante altre donne, costretta a scegliere tra la vita e la morte, tra il diventare madre e sopprimere il frutto della violenza. Alla fine opta per la vita, anche se sa che questa vita porterà con sé una scia di sangue con sé. L’uccisione del primo padre, del padre poi adottivo e tutto quello che ne deriverà. Edipo è di fronte alla Sfinge, di fronte alla domanda, all’interrogativo che abbiamo attraversato nella nostra esistenza: “Ti esti? Che cos’è? Chi siamo? Che cos’ è l’uomo?” e non sa dare risposta, guarda negli occhi la Sfinge e in quel momento si rende conto di una cosa terribile e affascinante: non sa dell’uomo più di quanto non sappia di quell’animale terribile e mostruoso che ha davanti a sè. Cos’è l’uomo? Cosa rappresenta l’uomo? Non lo sa, non sono serviti millenni di riflessioni, non sono serviti gli asceti, i santi, non sono servite le mani di chi ha pregato, perché l’uomo rimane il grande mistero, il grande enigma. Ed Edipo muore. Ma la morte di Edipo porta con sé, in questa silloge che è veramente un gioiello, un nuovo elemento di riflessione del tutto calato nella nostra quotidianità. Due cori dialogano fra di loro: Com’è morto Edipo? E’ morto come ci racconta nell’”Edipo a Colono” Sofocle o è morto in altro modo? E’ l’eroe che alla fine della sua vita scappa accecato, entra nel bosco di Colono e viene assunto in cielo mentre la morte diventa uno svaporare nel cielo, o al contrario, come ci dice il secondo coro, muore in maniera atroce all’interno di un ospedale, tra medici in camice bianco che hanno trasformato il suo corpo in un terreno sul quale continuare a mettere le proprie mani, tra tubi, medicine, senza più alcuna dignità, senza più nessuna umanità. Sarebbe bello credere al mito, che ci dà conforto, all’idea della bella morte, che accoglie e solleva dalla sofferenza. E invece no, la testimonianza è di tutt’altro genere e di tutt’altra natura. Stiamo uscendo da quel mondo degli eroi perché in quel contesto classico si conosceva perfettamente il senso della misura. Seneca ci dice qual è la differenza tra existere e vivere, tra tempus e vita, questa che viviamo da soggetti e protagonisti e quello che, al contrario, trascorre ineluttabilmente. E’ questione di “modus”: sapere, come dice Lucrezio, qual è il momento in cui dobbiamo alzarci come convitati sazi dal banchetto e andare via. Ma viviamo in un’età, in cui gli eroi si stanno poco alla volta dissolvendo, in cui Tebe sta diventando altro, una città in cui operai innalzano ogni giorno mura sempre più alte, per impedire ai disperati della Terra di entrare nel luogo dell’utopia, dagli splendidi grattacieli di vetro, tra uffici dei brokers e “stock exchange”. Ma chi è rimasto fuori, paga il prezzo di essere arrivato in ritardo e di poter godere solo delle briciole della vita. Il muro si innalza mentre di notte delle Penelopi sembrano distruggerlo nuovamente. E di muri ne conosciamo tanti, in questo momento storico. Il confine si fa così profondo che diventa difficile capire chi è dentro e chi è fuori, chi è l’assediato e chi l’assediante. Tebe diventa sempre più il nostro mondo, West West, è quella Tebe che sarà bombardata a tappeto, distrutta, è la Tebe nella quale Era ha allontanato tutti coloro che sono diversi, poco integrati, come gli omosessuali, così Tiresia è costretto a riacquistare vesti maschili e a profetizzare il futuro. Sorgerà una nuova Tebe che sarà una continuazione dell’antica e un’entità del tutto diversa e qui davvero la quotidianità, la contemporaneità si è fatta assolutizzante, totale. Siamo di fronte quasi alle stazioni di una Via Crucis che si affiancano l’una all’altra, che scandiscono la catabasi, la discesa verso gli inferi. E’ la nuova Tebe nella quale dai camioncini vengono buttati fuori i nuovi schiavi mandati a raccogliere nelle campagne i frutti che noi mangiamo, sono quelli che vivono in case fatiscenti e cucinano su fornellini altrettanto fatiscenti e le cui mani sono rosse del sangue e dei frutti che raccolgono perché dei neo-tebani e degli occidentali nei loro bermuda perfettamente griffati possano continuare sulle rive del mare, sotto gli ombrelloni, a godere dei prodotti macchiati del sangue dei nuovi schiavi. C’è qualcosa di ancora più grave nelle nuove forme di asservimento rispetto alla vecchia schiavitù, dichiarata e riconoscibile rispetto alla falsa coscienza del nostro mondo occidentale che finge di non vedere o di indignarsi di tanto in tanto e di alzare di tanto in tanto la voce soprattutto in alcune circostanze, perché in quel mondo la schiavitù sembrava in qualche modo necessaria a tutto il sistema, mai nessuno aveva pensato di poterla eliminare, neanche Seneca, che pure ripete che anche gli schiavi sono uomini e hanno bevuto del nostro stesso latte. Noi invece siamo convinti che questa palingenesi c’è stata in nome della nostra splendida democrazia. E in questo mondo l’acqua, che è un bene comune, diventa sempre più qualcosa che appartiene ad una élite. Gli dei sono assetati d’acqua e gli uomini sono assetati di dei. Il cibo mangiato è spazzatura che produce altra spazzatura, che sembra salire, salire, sommergere la Terra e arrivare fino al cielo. In questo mondo il mangiare non ha un significato secondario, ma diventa il simbolo della nostra avidità, cupidigia, come non a caso, scrive Dante che dà un ruolo fondamentale ai golosi perché l’ingordigia è il segno più grave e significativo della degenerazione di una società. Perché all’interno di questo mondo i nuovi filosofi sono i cuochi, ai quali si guarda con ammirata fede, di cui si leggono i libri. La nostra è la società nella quale si tira fuori il sangue nero, come lo chiamavano gli indiani, della terra, il petrolio dalla nostra Madre, sempre più violata e violentata. Cosa resta, allora? Resta una plutocrazia che domina incontrastata, che si spartisce il potere, che decide a chi bisognerà dare i soldi e a chi no, chi sarà del sistema e chi non sarà del sistema, tra uomini ormai completamente spenti che di giorno vanno a lavorare, qualcuno di tanto in tanto si butta sotto il vagone della metropolitana ma, in assenza di ethos, di humanitas, di pietas, l’umana tragedia produce il profondo fastidio di chi è rallentato nel ritmo di tutti i giorni. Che cosa resta? Restano gli uomini consumatori compulsivi e costanti e gli scienziati, aspetto straordinario. Pochi scienziati che resteranno sottoterra, nelle grotte. Siamo agli antipodi di quello che ci diceva Platone. Come si arriva alla verità? Guardando la luce, uscendo fuori dalle caverne, dalle grotte. Mentre invece gli scienziati sono sottoterra perché in realtà non seguono più il principio galileiano delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, ma sono sistemici al potere, riescono semplicemente a veicolare quelle verità poco dimostrate ma funzionali ad una nuova fede. Come ci diceva Epicuro nella Lettera a Meneceo: meglio credere agli dei perché gli dei si possono in qualche modo anche placare, mentre invece l’ineluttabilità ed il neodeterminismo della scienza ci toglie ogni tipo di speranza. Eliminare i poeti, non i poeti funzionali, quelli d’occasione, ma quei poeti che continuano ad esaltare la libertà e la ribellione, è l’altro imperativo categorico. In questo mondo non c’è più posto per gli eroi, forse torneranno gli dei, è probabile sotto forma di mucillagine, di qualcosa di invisibile o di luce. Un tempo si diceva “è felice quella società che non ha bisogno di eroi”, è vero, ma è vero in parte perché in quel mondo, e ce lo ha insegnato Don Chisciotte, viveva la virtù, era consolidato un sistema valoriale di profonda solidarietà, oggi ineluttabilmente dissolto. Ebbene quest’opera, questo libro che ha un apparato critico straordinario, che non è altro dalle poesie ma parte integrante di esse, riesce in maniera chirurgica, in alcune parti con parole tagliate con il diamante, a farci entrare in quello che è il significato più profondo del mito, tunc et nunc, allora ed ora, un mito quindi che non è consegnato al passato ma che si rinnova nella quotidianità come ci dice uno straordinario autore e professore universitario americano, Campbell. Ricordandoci quello che era uno dei principi fondanti della cultura classica “è meglio non essere mai nati” e recuperando la necessità di cercare sempre e costantemente la bellezza, egli aggiunge: “la nuova incarnazione di Edipo è tra la quinta e la sesta avenue, è lì fermo ed aspetta che scatti il verde”.
Antonella Presutti
Presidente Fondazione Molise Cultura
Intervento in occasione dell’attribuzione del Premio Giovannitti