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da Poesia e Conoscenza n° 3 – da Sinergie

disegno di Luciano Ragazzino

LUIGI CARACCIOLO
LA POETICA DEL “GIALLO”

La Poesia è Poesia quando porta in sé un segreto
Giuseppe Ungaretti

La lettura dei romanzi polizieschi è una occupazione poetica del più alto interesse
Guillaume Apollinaire

Non senza imbarazzo e con qualche fondata preoccupazione, proverò a capire se ed eventualmente quale relazione può stabilirsi tra la poesia e il romanzo poliziesco. Va da sé che, in questa sede, è del tutto fuori luogo analizzare questi due “generi” (ammesso che abbia ancora senso parlare di “genere”, ma su questo si tornerà più avanti) considerandone le rispettive evoluzioni storiche e le tante diversificazioni, anche qualitative, all’interno degli stessi. Una prima questione da risolvere è proprio relativa all’individuazione di un genere, a tale proposito Tzvetan Todorov (“La letteratura fantastica”) sembra confutare che: “(…) solo la letteratura di massa (romanzi gialli, d’appendice, di fantascienza ecc.) dovrebbe evocare la nozione di genere che invece sarebbe inapplicabile ai testi propriamente letterari (romanzi, poesie, ecc.)”, il superamento della nozione di genere già nel 1959 veniva evocato da Maurice Blanchot (Il libro a venire) che così scriveva: “Il libro solo importa, cosi com’è, fuori dai generi, dalle rubriche – prosa, poesia, romanzo giallo, testimonianza – in cui rifiuta di incasellarsi, negandogli il potere di fissare quale sia il suo posto e di determinare la sua forma. Un libro non appartiene più a un genere, ciascun libro dipende dalla sola letteratura, come se in essa giacessero anticipati nella loro generalità i segreti e le formule che permettono di dare realtà di libro a quanto si scrive”. Condividendo, quindi, il superamento del “genere”, credo sia più utile, al fine di ricercare affinità tra poesia e giallo, individuare un modello che consenta la scomposizione di un racconto o di una poesia in una sequenza di unità minime che costituiscono le unità elementari mediante le quali il giallista o il poeta compongono la loro opera. In altri termini ciò che interessa è l’analisi della struttura del prodotto narrativo e non il suo oggetto. Prima, comunque, di esaminare i punti di contatto strutturali tra poliziesco e poesia, vale la pena ricordare una singolare coincidenza: la quasi totalità dei critici letterari fa risalire l’origine del moderno poliziesco (libero da incrostazioni gotiche) al 1841, anno in cui negli Stati Uniti d’America sulla rivista The Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine, viene pubblicata la raccolta di racconti I Delitti della Rue Morgue il cui autore è Edgar Allan Poe, universalmente riconosciuto tra i maggiori protagonisti della letteratura moderna; “inventore” della “poesia pura”, di lui Charles Baudelaire – che ne curò la traduzione in francese contribuendo in modo decisivo alla diffusione dell’opera in tutta Europa – scrisse: “Nessun uomo ha raccontato con più magia le eccezioni della vita umana e della natura”.

Ma torniamo all’interrogativo di partenza: è lecito comparare due modelli letterari apparentemente così lontani come la poesia e il romanzo poliziesco? Ebbene, se – come detto – se ne esaminano le strutture narrative, un importante punto di partenza non può non essere quanto indicato da Aristotele nella sua Poetica. Il filosofo di Stagira, nell’esaminare gli elementi costitutivi della tragedia (e quindi della poesia) aveva individuato (sia qui detto in estrema sintesi) uno schema che può essere così riassunto:

  • L’esordio o situazione iniziale
  • La complicazione, ovvero la novità inattesa che mette in moto la vicenda, introducendo nella narrazione un improvviso cambiamento della situazione
  • La peripezia, ovvero il nuovo incidente, o la serie di incidenti, in grado di provocare un rovesciamento della situazione
  • La catastrofe o scioglimento della vicenda.

L’intuizione delle similitudini strutturali tra gli elementi aristotelici e la letteratura poliziesca la si deve alla scrittrice e traduttrice britannica (tradusse, tra l’altro, in inglese la Divina Commedia) Dorothy L. Sayers (Oxford 13 giugno 1893 – Londra 17 dicembre 1957) la quale nel saggio, Aristotele e la detective story, rilegge la Poetica come fosse un manuale per la stesura di un poliziesco.

Ora, se si tiene conto delle “fasi” della poetica aristotelica e le si confronta con gli standardizzati schemi narrativi del poliziesco, sarà del tutto evidente la loro pressoché totale sovrapposizione.

Infatti, nelle detective stories il prologo (o esordio) è quasi sempre lineare e privo di elementi perturbanti, tuttavia la narrazione si arricchisce di uno o più accadimenti (complicazioni) che modificano sostanzialmente lo scenario; segue un primo tentativo di interpretare i fatti che, tuttavia, vengono sconvolti da nuovi episodi (peripezie) che determinano un nuovo quadro. Soltanto al termine della narrazione si giungerà alla risoluzione dell’enigma (scioglimento della vicenda).

D’altra parte, Franco Montanari, nella sua introduzione alla Poetica di Aristotele (edizione Oscar Mondadori), offre ulteriori spunti di riflessione che rendono meno bizzarra la nostra ipotesi di partenza, soprattutto in considerazione di quanto si dirà più avanti: “(…) per Aristotele l’arte poetica è imitazione della realtà sensibile o, se si preferisce, della natura (…) la poesia imita la natura e in questo modo esprime non il particolare individuale e accidentale dell’agire umano bensì l’universale, realizzando un atto di vera conoscenza perché non c’è vera conoscenza se non dell’universale (…). La funzione dell’arte poetica e il piacere che ne deriva toccano sia la sfera razionale che quella emotiva, a causa della coesistenza di una funzione conoscitiva e di una emozionale (…)”. Se per Montanari (che interpreta Aristotele) la poesia è imitazione della realtà, per Renato Cristin (Nota introduttiva a Il romanzo Poliziesco di Siegfried Kracauer): “(…) la posizione di partenza del detective è quella dell’osservatore, di colui che guarda la realtà (…)” cercando di interpretare i fatti ponendoli su un piano di natura, “detergendo” ogni elemento che non sia in sintonia con la natura stessa. Anche rispetto alla funzione poetica come definita da Montanari, sembra poter cogliere un’evidente, ulteriore, analogia tra l’arte poetica e il poliziesco: nel saggio già citato, Kracauer, nel definire le situazioni tipiche del poliziesco, evidenzia quanto esse diventino un filtro raffinatissimo per penetrare nella sfera delle “idee” e nel campo delle “immagini” del mondo e per rientrare, dopo l’esperienza “trascendentale”, nel mondo delle cose, dove sono attese sul terreno del “vissuto e del vivente”. Anche il poliziesco, quindi, come la poesia, altro non è se non un pretesto, un’ispirazione, un punto d’appoggio “qualcosa che sta prima del testo e che ne costituisce il piano di riferimento”.

Come in poesia anche per il romanzo poliziesco si pone il problema della voce narrante, Diomede, sulla scia di Platone, divide tutte le opere in tre categorie: quelle in cui parla il solo narratore, quelle in cui parlano i soli personaggi, e quelle in cui parlano entrambi, come è ovvio la questione non è soltanto relativa ad una scelta stilistica, essa indica una diversa modalità di comunicare con il lettore, di determinare una più o meno intimità, modificando, sostanzialmente, in base alla scelta operata, anche il livello di complicità tra chi scrive e chi legge.

Ma c’è un ulteriore punto di contatto, tanto forte quanto inaspettato, tra poesia e romanzo poliziesco: la psicoanalisi. Nella presentazione del saggio L’infinito nella voce. Su poesia e Psicoanalisi di Franco Lolli e Lucilio Santoni (ed. Franco Angeli 2004), si legge: … il poeta crea una struttura di finzione che ha a che fare con la verità, lo psicoanalista risponde con un silenzio che pure ha a che fare con la verità; anche se la prima è la verità del mondo che si rivela come realtà delle cose e la seconda è la stessa verità disseminata nelle infinite verità soggettive. La lettura del testo poetico non dicegranché al lettore di ciò che dell’autore è più proprio; la cura analitica, dal canto suo, a volte si infrange su un impossibile a dire che rappresenta la roccia insuperabile di cui già Freud aveva parlato.

Se è vero che esiste una stretta relazione tra poesia e psicoanalisi, è altrettanto vero che notevoli punti di contatto si possono riscontrare tra psicoanalisi e romanzo poliziesco. Non a caso, Michael Shepherd, in Sherlock Holmes e il caso del dottor Freud (Avverbi edizioni 2002), ci riferisce come in realtà molti abbiano paragonato la psicoanalisi all’indagine investigativa. Lo stesso Freud (Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri 1978), così si esprime: “E se, in qualità di agenti investigativi, partecipate alle indagini su un assassinio, vi aspettate davvero di trovare che l’assassino abbia lasciato sul luogo del delitto la sua fotografia con tanto di indirizzo accluso, oppure non vi accontentate necessariamente di tracce relativamente lievi e non molto perspicue della persona ricercata?”. È da credere che Freud intendesse sottolineare quanto la metodologia delle indagini investigative proprie dei romanzi gialli a lui contemporanei potesse essere utile anche nel campo dellaricerca psicoanalitica. D’altra parte è nota l’ammirazione che Freud aveva nei confronti di Sherlock Holmes, al punto che in una delle sue lettere inviate a Jung, (Lettere tra Freud e Jung, Boringhieri 1974) ne fa esplicito riferimento: “È come se il più tenue degli indizi avesse permesso a me, come a Sherlock Holmes, di indovinare la verità”. Anche Matteo Rampin in La psicoterapia come un Romanzo Giallo (Ponte alle Grazie, 2004), si occupa delle strette relazioni che intercorrono tra psicoanalisi e romanzo poliziesco, anche lo psicoterapeuta Cloe Madanes, in Storie di psicoterapia, afferma: “Ogni terapeuta è un investigatore. Ogni terapia riuscita è un’indagine condotta con esito positivo”.

Ora, se così forte è la relazione tra poesia e psicoanalisi e tra questa e il romanzo poliziesco, parafrasando il Timeo di Platone, sembra di poter dire che è impossibile che due cose si congiungano senza una terza, ci deve essere un legame che le collega. Questa funzione di terzo è affidata all’indagine di tipo investigativo.

Questo assunto, non di immediata lettura, merita un approfondimento: l’etimo di “investigare”, “investigia”, può essere agevolmente tradotto in “cercare le tracce”, sicuramente attività tipica di qualsiasi protagonista dei romanzi polizieschi, ma, a ben vedere, anche la poesia svolge, tra le altre, questa funzione; certo in questo caso si tratta di ricercare tracce assai particolari: quelle dell’anima, in primo luogo. Il giallista di razza, al pari del poeta, utilizzando, quindi, lo strumento dell’indagine, squarcia il velo che nasconde al lettore la verità, disvelando, dopo averlo scandagliato, il nostro lato oscuro, ciò che non vogliamo o non possiamo vedere. Da questo punto di vista il giallo e la poesia assumono un valore catartico perché entrambi (sia pure con diversa forza espressiva e differenti modalità stilistiche) ci aiutano a decodificare una realtà senza dover ad essa sfuggire.

Il poeta si muove tra i versi come Philip Marlowe tra le strade di Los Angeles: a entrambi non è consentito fermarsi all’apparenza delle cose, al contrario devono affondare le mani nello sterco e tirar fuori il diamante in esso celato. Ecco svelata la funzione salvifica della poesia e del giallo. Infatti, vale la pena sottolineare un ulteriore fortissimo elemento comune: il perturbante, vero ingrediente senza il quale, con ogni probabilità, non esisterebbero (almeno delle forme più alte) né la poesia, né la psicoanalisi, né il racconto poliziesco. Ma questa è un’altra storia.

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da Poesia e Conoscenza n° 3 – dal Dossier Lo scioglimento dei poli

disegno di Luciano Ragozzino

MATTEO MESCHIARI

GEOGRAFIE SENZA GHIACCI

L’immaginario del freddo è poverissimo

G. Bachelard

0. Si sciolgono. Stiamo perdendo ghiacciai alpini, banchise polari, scudi glaciali. Ma che cosa stiamo perdendo con il ghiaccio? Certamente paesaggi, ecosistemi, specie, ma anche un immaginario complesso, un’ecologia della mente in cui i ghiacci della terra hanno svolto per l’uomo, dal Paleolitico a oggi, una funzione cognitiva e poetica fondamentale. Fondamentale, ma non troppo evidente. Quando si parla, tra estetica e storia delle idee, di invenzione del Monte Bianco, dei Poli, del Nord, non si parla di declinazioni gelate di un qualche lontano ignoto, di un esotismo che ha sostituito a palme e cammelli i trichechi e gli iglù. È qualcosa di più profondo, qualcosa di primario, che ha a che fare con la possibilità stessa di pensare il mondo. Proverò a spiegarlo in poche note.

1. L’immaginario poetico legato al fuoco, alla fiamma, all’incendio è entrato stabilmente nel linguaggio comune: “infiammarsi”, “fiamma della passione”, “incendio dell’anima”, “fuoco interiore”, “fuoco sacro” sono solo alcune espressioni tra le innumerevoli che le nostre rêveries del fuoco hanno inventato per connotare emozioni, stati d’animo, condizioni mentali. Il fuoco ha accompagnato per decine di migliaia di anni le introspezioni umane, dal focolare paleolitico alla fiamma della candela sul tavolo dello scrittore. Non così il ghiaccio. C’è qualcosa nel ghiaccio che resiste all’immaginario, che frena la rêverie. Pensiamo alle parole più comuni: ghiaccioghiacciaioglaciazioneglacialeghiacciatoagghiacciantenevenevoso, innevatogelogelatogelidobrinabrinato. Quante di queste parole vengono usate comunemente in un registro metaforico? Solitamente solo “ghiaccio” e i suoi derivati “glaciale” e “agghiacciante”, e ovviamente “gelido”. Quello che stupisce è che l’uso traslato di queste parole ha un’incredibile monotonia di significato: mentre il fuoco serve a indicare passioni diverse, talora opposte, dall’ira all’amore, il ghiaccio ha una connotazione quasi solo negativa,  al limite neutra: il suo valore metaforico non si stacca dalla semantica dell’assenza di sentimenti e passioni, della freddezza interiore, del vuoto. Ma forse è proprio questa sua resistenza alla metaforizzazione, questa monotonia, che ci aiuta a caratterizzarlo meglio. Si tratta insomma di un terreno che resiste, che frena la metafora, che letteralmente raffredda la rêverie. Il ghiaccio, per così dire, fa una doccia fredda al fuoco dell’immaginario, e soffoca nella sua imperturbabilità l’incendio dell’eccesso immaginativo.

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