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Roberto Caracci

“Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”

 

 

Roberto Caracci narratore e saggista, vive e insegna a Milano. Ha pubblicato volumi di narrativa – “L’ingorgo”, (Rebellato, 1984), “Le radici del silenzio”, (Ati, 2007) – e con Moretti&Vitali il saggio di critica poetica “Epifanie del quotidiano: Veli e bagliori nella poesia italiana contemporanea (2010). Quindi, per lo stesso editore, il saggio “Il Ruggito del Grillo. Cronaca semiseria del comico tribuno” (2013); lo studio filosofico “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore di esistere” (2016) e il romanzo “La cella della dea” (2018). Prima di “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, sempre per Moretti&Vitali, ha pubblicato nel 2020 il romanzo “Preludi&Deliri” (Pentagora editore).

Si occupa di filosofia e psicoanalisi. Ha tenuto conferenze sulla Narratologia del sogno e sul pensiero moderno, da Bergson a Nietzsche, da Freud a Severino. Dirige dal 1992 il Salotto Caracci, cenacolo letterario-filosofico a Milano.

 

 

Con “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, Roberto Caracci affronta sul piano narrativo le tematiche esplorate nei suoi studi filosofici, a partire da “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore dell’esistere”. Perché è la morte il fatto con cui si confronta il piccolo chierichetto Alessio, seguito nella sua formazione all’esistere dagli otto ai dodici anni. Ma, come lo stesso autore ha avuto modo di dire in diversi interventi, questo non è un romanzo filosofico, ma un’opera di pura immaginazione, in cui il racconto, le situazioni e i personaggi veicolano domande e risposte attraverso il loro accadere. Ed è un accadere di grande varietà.

La vicenda del piccolo Alessio, pupillo di don Luciano, che la perpetua rumena Xenia dice assomigliare a Papa Pacelli, è infatti un viaggio attraverso i morti. In una famiglia che una volta in Italia era tipica – educazione cattolicissima e profluvio di nonni, nonne, zie e prozii -, il giovane protagonista ha a che fare con moribondi che muoiono, che lasciano il loro corpo ai vivi: corpi muti, refrattari, che non possono rispondere all’unica domanda che per Alessio merita una risposta: “Cosa c’è dopo? C’è l’immortalità di cui mi parla Don Luciano o non c’è nulla?”.

Potrebbe essere un viaggio dolente, ma l’immaginazione dell’autore lo rende picaresco grazie all’uso di una categoria dello stile poco frequentata dalla letteratura italiana: il grottesco. Il capitolo dedicato allo zoppo zio Tonino, sostenitore pagano della cremazione, che in salotto tiene una volpe impagliata e l’urna con le ceneri dell’amato cane da caccia, è l’incursione in un territorio in cui lo straniamento e l’eccessivo creano la tensione tra il messaggio e lo stile. La nonna immacolata è invece protagonista di un dialogo tra una morta e un vivo – suo nipote Alessio – che non è solo la rappresentazione della potenza immaginativa dell’infanzia, ma un autentico dialogo coi morti come lo avrebbe potuto scrivere Luciano. Un gioco dell’esistenza.

“Avevo avuto altre volte la sensazione di giocare con il fuoco. Come se la potenza del mio immaginario avesse la facoltà di sfuggirmi di mano e di sopraffarmi. Mi percepivo dento un cortocircuito e mi dicevo che ero in tempo per tornare indietro, mi ammonivo a non lasciarmi andare al gioco perverso, ad uscire dal tunnel prima che fosse tardi. Il gioco è bello non solo quando dura poco, aveva concordato mio padre ma quando soprattutto riesci ad uscirne”.

E per uscirne Alessio dovrà, nell’imprevedibile capitolo conclusivo, fare i conti con l’alternativa tra vocazione e scelta, tra l’essere chiamati da e verso qualcosa che ci prescinde e l’essere chiamati a sé stessi.

“Potrei non essere nato e neanche dunque morire. Potrei avere sognato la mia nascita, immaginato la mia morte, ma dentro la bolla di una menzogna colossale, la stessa di questa strana messa del venerdì santo, dell’assemblea dei fedeli, dello strampalato discorso di don Luciano”.

Le crepe nel paradiso di Alessio, ci dice Caracci in questo romanzo laterale, sono quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti noi, perché l’infanzia eclissa per ognuno.

 

Riporto l’incipit del romanzo, non a caso intitolato “Il principio della fine”.

 

Tutto cominciò, e cominciò a finire, quando non mi rimase nulla di quello con cui ero partito, il bagaglio che mi aveva accompagnato nel viaggio, gli effetti personali divenuti da immemorabile tempo le appendici, le vecchie pelli o le inutili zavorre ci ciò che ero. Tutto cominciò, insomma, e cominciò a volgere alla fine, quando sui palmi aperti delle mani, all’alba, non avvertii più nemmeno la sensazione dolce, prensile, pruriginosa, di ciò che si era materializzato nel corso della notte, nel magico pozzo dei sogni, e che ora evaporava. Monete, gioielli, tesori ritrovati nelle sabbie di oasi esotiche, o sottratti a grandi magazzini di metropoli, soffiati alle banche o agli uffici postali. Ma anche mani protese di amici, conosciuti per caso lungo le affollate strade del mondo, e seni di fanciulle e di giovani donne, o labbra dall’umore tiepido che ancora bagnava le mie dita. Non c’era più niente da stringere, i miei palmi rimanevano aperti e vuoti, le dita appena un po’ incurvate, pronte a chiudersi su quanto le alte maree dei sogni si compiacevano di depositare tra le mie mani spalancate, simili a foglie carnivore in attesa del contatto di uno scarabeo o della più leggiadra delle libellule per accartocciarsi sulla preda e stritolarla.

 

Foto della cerimonia della premiazione al settimo concorso internazionale Le Grazie – Portovenere – La Baia dell’Arte, per il romanzo “Le crepe del paradiso”, Moretti&Vitali 2001, primo premio della giuria (cliccare sull’immagine per ingrandirla):

 

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Angela Passarello

“Poema Rupe”

Il libro, edizione New Press, 2022

Angela Passarello è nata ad Agrigento e vive e lavora a Milano. È stata cofondatrice della rivista “Il Monte Analogo”. Ha collaborato con “La Mosca” di Milano. Ha pubblicato la raccolta di racconti Asina Pazza (Greco E Greco, Milano 1997), una raccolta di poesie La carne dell’Angelo (ed. Joker, Novi Ligure 2002), le prose poetiche “Ananta delle voci bianche” (Quaderni di Correnti, Crema 2008). “Pani scrittu” (edizioni Pulcino Elefante, 2015, Osnago). È presente nelle antologie: Versi Diversi (edizioni Melusine, Milano 1998), Poeti per Milano (Vienne¬pierre, Milano 1998), Rane e L’Uomo, Il Pesce e L’Elefante per I Quaderni di Correnti (Crema 2007). È artista visiva e parte della sua opera pittorica è stata esposta, nel 2019, alle Vetrine della Libreria delle Donne di Milano e alla Fondazione Mudima; nel 2021 a Palazzo Zanardi Landi di Guardamiglio (LO).

 

Angela Passarello – Foto da “L’ombra delle parole – Rivista letteraria internazionale”

 

Il cuore di Poema Rupe (New Press Edizioni, 2022, Lomazzo), ultimo lavoro di Angela Passarello, è come osserva Angelo Lumelli nella sua introduzione, l’anomalia. L’anomalia del linguaggio, ricco di analogismi e di immagini sempre vicine alla terra. Un’anomalia che deriva dalla resistenza della materia alla nostra intrusione, così come il verso e la parola resistono al dilagare della banalità dell’uomo.

Così, scrive Lumelli, “La Rupe ha visto tutto e ciò e rivendica la propria natura di luogo […] un appello alla lingua che è sempre fuori luogo – e che fa di questo esilio la propria forza, il vanto di essere sopra-luogo, esultante predizione”. Ma l’esilio di Angela Passarello non significa mai distanza o distacco: è un punto di vista che si colloca al centro di ciò che vorticosamente accade e lo osserva, trasformandolo in linguaggio. La forza del Poema Rupe è nel magma dei significanti, dove la modernità si accumula e si mescola con archetipi della natura. La tecnologia è già vecchia e sorpassata e si deposita su una terra che nel suo incedere assorbe ogni velleitario tentativo umano.

La Rupe non è semplicemente l’archetipo dell’origine, della Sicilia a cui la Passarello ritorna sempre come per contrasto al quotidiano della Milano-modernità, ma è l’accumularsi di esperienze antiche, una stratificazione in cui non solo affondano le radici ma intorno al quale si affolla il presente.

Intorno alla Rupe, niente è incontaminato, ma anche l’umano è un dettaglio, un transeunte che può solo lasciare tracce. E questo sono i versi della Passarello: tracce, che si imprimono, e diventano essi stessi rupe. Tracce che si stagliano intrise di una grecità mediterranea e che si connettono con la dimensione mitica, e quindi autentica, della parola.

Una poesia che nella sua atemporalità è sempre anche una poesia civile, che non dimentica i naufraghi dell’indifferenza e, anzi, li eleva, attribuendogli un senso e restituendogli l’umanità del riconoscimento. In questo senso la voce di Angela Passarello è una voce carsica e persistente e, soprattutto, mai indifferente. E a cui è impossibile rimanere indifferenti.

La voce anomala e resistente di Angela Passarello non è mai indifferente come possiamo leggere qui di seguito, in questi versi estratti dal libro:

 

Rupe martoriata da costrutti

afferravita

di organi e di apparati

di viventi ignari delle alterazioni

*

Rupe dei poveri rognosi dormicane

dall’occhio querulo attenti alba

su scorze di mandorle sgusciate

tra spuntoni degli alberi del violo

 

Rupe dei nulla facenti guardacoste

riluttanti a imprese salvavita

di barconi rovesciati

con i morti trascinati sulle maree

*

la ragazza scooter andava

con lo zainetto sulle spalle

cantando sulla punta dirupata

dove l’albero secco ergeva fatiche

 

la notte dell’eclissi di luna rideva

bevendo heineken rideva

la ragazza scooter fra i corpi

sul giaciglio di foglia ammaccata

 

nessuna traccia veniva segnata

sul foglio bianco

della ragazza scooter

ombre soltanto nel giaciglio

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“Xenia”: il numero 2/2022 tra impegno civile e poeti liguri

La rivista “Xenia – Trimestrale di letteratura e cultura”, curata dall’Associazione Genova Lettere, è una lettura preziosa per gli appassionati di poesia e non solo. La ricchezza degli approfondimenti dà la possibilità di esplorare tematiche non banali, e il valore delle poesie pubblicate offre l’occasione di scoprire autrici ed autori diversi e interessanti.

 

Nel secondo numero di questo 2022, che ha un poco accompagnato la mia estate, è davvero suggestivo il saggio di Rosa Elisa Giangoia “I fiori per il dolore e per il ricordo”, dedicato al ruolo del crisantemo nella poesia italiana del novecento, descrivendo la sua parabola da fiore decorativo a fiore del lutto. Un intervento colto e sorprendente.

 

Giustamente viene dato molto spazio ai poeti genovesi e liguri, ed ho molto apprezzato gli interventi di Eugenio Villani dedicato a Montale – “La folgorazione di Arsenio” –  e di Massimo Morasso a Caproni – “Su Giorgio Caproni -, oltre al doveroso approfondimento di Davide Puccini dedicato al Meridiano di Camillo Sbarbaro.

 

Tra i testi colpiscono le tre poesie civili di Andrea Guiati dolorosamente ispirate dall’invasione dell’Ucraina e l’affiancamento della traduzione di Gilberto Sacerdoti Pied Beauty – Bellezza confusa di Gerard Manley Hopkins a “Hopkins e Adriatico” scritta dallo stesso Sacerdoti e corredata da una sua bella nota esplicativa. Ricordo che nella redazione della rivista figurano oltre a Rosa Elisa Giangoia anche Milena Buzzoni, Vittorio Coletti, Giuseppe Conte, Goffredo D’Aste, Giuliana Rovetta e Stefano Verdino.

 

 

Il sommario di questo numero:

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Lucetta Frisa

“Ho tante albe da nascere”

 

 

Lucetta Frisa, genovese, è poeta, scrittrice, traduttrice, lettrice a voce alta. Tra i suoi libri di poesia: La follia dei morti (Campanotto, 1993),  Se fossimo immortali (Joker 2006), Ritorno alla spiaggia (La Vita Felice, 2009), L’emozione dell’aria (CFR, 2012), Sonetti dolenti e balordi (CFR, 2013). Ha tradotto, tra gli altri, Henri Michaux, Bernard Noël, Alain Borne. Suoi testi sono stati pubblicati in riviste (Poesia, Nuova Corrente, Nuova Prosa, La Clessidra, La mosca di Milano, L’immaginazione) e antologie (Il pensiero dominante, Genova in versi, Trent’anni di Novecento, Altramarea, Poems from Liguria. Suoi racconti per ragazzi sono apparsi sul quotidiano Avvenire. In prosa pubblica Sulle tracce dei cardellini (Joker, 2009) e La Torre della luna nera (Puntoacapo, 2012). In coppia con Marco Ercolani scrive l’epistolario fantastico Nodi del cuore (Greco & Greco, 2000), Anime strane (ibidem, 2006) Sento le voci (La Vita Felice, 2009; tradotti anche in francese da S.Durbec per Etats civils, 2011), e il Muro dove volano gli uccelli (Edizioni l’Arcolaio, 2013). Finalista in diversi premi letterari, ha vinto il Lerici-Pea (2005) per l’Inedito e l’Astrolabio 2011 della critica per la sua opera complessiva. Nel 2016 raccoglie, per puntoacapo, un’antologia della sua opera poetica: “Nell’intimo del mondo. Poesie 1970-2015” (finalista Premio Camaiore 2017). Per lo stesso editore, nel 2020, esce “Cronache di estinzioni”.

Sito web: www.lucettafrisa.it

 

 

Ho tante albe da nascere” (puntoacapo Editrice, Pasturana, 2022) è una raccolta poetica in cui, come dice Luigi Cannillo nella sua introduzione “L’alba, o meglio, le albe di Lucetta Frisa ricordano un’aurora boreale, per lo stretto rapporto tra notte, luce e colore, per le immagini in movimento a cui danno origine e per come possiamo percepire quei segni come messaggio di un altrove”. Vera protagonista dei versi dell’autrice è la sorpresa, la ricerca della meraviglia di quello che si deve ancora scoprire: l’alba non è solo un inizio, ma la promessa dell’inatteso. Così sono spesso protagonisti i bambini e gli animali, immuni dall’assuefazione dell’età adulta. Una raccolta che si muove nello spazio – le Dolomiti, Portofino – e nel tempo, con una particolare attenzione al sonno “da cui origina anche la scrittura, vissuta e agita come componente esistenziale della vita: come testimonianza, cronaca, ritmo, creazione di spazi verbalizzati con la consapevolezza di una responsabilità della parola che si accentua a comprendere tutti questi piani espressivi”. Una parola che per trattenere, scivola sulle cose.

 

Oggi

non penso a nulla

solo mi dico

è l’alba

voglio tenerla stretta a me

come un talismano.

 

Un bambino mi chiede

l’alba

che cos’è?

Adesso

guarda e respiro adesso

la conoscerai di notte

quando non c’è.

 

*

 

Se camminare è scrivere

se scrivere è camminare

abbiamo raggiunto le vette

di tutti i monti:

(era il mio sogno di bambina).

 

*

 

Il mistero è la fiamma ardente della materia.

guardo le nuvole

si tocca lo spessore della terra

guardando la terra come nuvola

sentiamo il legame

a un unico cerchio inconcluso

che più si apre

e più ci inabissa.