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Giovanna Rosadini: Il Salone Viola e il Piacere assoluto della Scrittura

Giovanna Rosadini, nata a Genova nel 1963, si è laureata in Lingue e Letterature Orientali all’Università di Ca’ Foscari, a Venezia.  Ha lavorato per la casa editrice Einaudi, come redattrice ed editor di poesia, fino al 2004, anno in cui è uscito, per lo stesso editore, Clinica dell’abbandono di Alda Merini,  da lei curato. Ha pubblicato la raccolta Il sistema limbico per le Edizioni di Atelier nel 2008, e altri testi poetici in riviste e antologie collettive. Nel 2010 è uscito Unità di risveglio, per la Collezione di Poesia Einaudi. Per lo stesso editore ha curato Nuovi poeti italiani 6, antologia di voci poetiche femminili che ha suscitato un vivace dibattito e una larga eco, uscita nel 2012. La sua terza raccolta poetica, il numero completo dei giorni, è stata pubblicata da Nino Aragno editore nel 2014. A maggio 2018 è uscita una nuova raccolta, Fioriture capovolte, ancora per Einaudi editore.  Recentissima, del luglio 2019, l’autoantologia con inediti Frammenti di felicità terrena, pubblicata nella collana “Gialla oro” di LietoColle /Pordenonelegge. In corso di stampa, per un progetto pilota delle edizioni di Pangea curato da Davide Brullo per conto dell’Ospedale S. Matteo  di Pavia, la silloge in lasse prosastiche Un altro tempo. Vive e lavora a Milano.

Foto di Daniele Ferroni

Per gentile concessione di Francesco Marotta, direttore di “La Dimora del Tempo Sospeso” pubblichiamo qui di seguito la recensione di Elio Grasso al libro Frammenti di Felicità Terrena.

Elio Grasso

Il libro comprende, riordinandola, l’opera fin qui pubblicata da Giovanna Rosadini a partire dal 2008, quando uscì per le Edizioni di Atelier la raccolta Il sistema limbico. Non deve sfuggire l’eloquenza del viaggio, la sua irresistibile vitalità, in esso mostrate senza per un attimo venir meno la consistenza di quella “terra dei ricordi” che per la poetessa è da sempre suprema forza della lingua. Della propria materia psichica, intrecciata e fermentata alle leggi governanti i territori che l’hanno vista nascere e crescere. Se la poesia ha spesso origine dove i piedi provano a calcare terreni fertili e rispondenti a nervi vivi, qui siamo in presenza di luoghi per niente comuni, di orientamenti e fondali rimasti a lungo saldi. 
…Rosadini, lungo le sue vicissitudini esistenziali, non ha mai combattuto l’essenza del ricordo, quando resta aderente alla pelle, per volontà inesausta e definizione geografica ricca di destini. Genova e Liguria in fondo sono archetipi fin troppo (almeno per un lungo periodo nel Novecento) dotati di fonti letterarie di prim’ordine e compiti assoluti da condividere con chi sente la parte migliore e liberatoria del sentimento poetico e creativo. Ma, a differenza di molti indigeni, Rosadini (uscendo dalle case genovesi) affronta il mare per attraversarlo, non solo per studiarne il limite o la frontiera oltre le calate e i moli. Esterina montaliana, sì, ma capace di nuotare a lungo e non solo di tuffarsi con bellissima agilità. I richiami d’oltreatlantico sono numerosi, il rettangolo di Central Park contiene altre e numerose avventure, traffici e incoerenze elettriche, destini corporali e olfattivi, odissee degne di cavalierati. Non a caso opera cardinale risulta Il numero completo dei giorni, libro del 2014 e qui ripreso nella sua interezza: l’affondo nella Torà ebraica ha carattere distintivo, segna anche temporalmente la continuità di una vita nonostante lo stacco di un evento drammatico. L’Antico Testamento muove un inizio (si potrebbe dir meglio, smuove) ai lati dei tempi oscuri, staccando le membrane sbiadite di lingue giunte a una fine forse imprevista. È lì che la spinta montaliana trova il suo potenziamento, quando la libertà del dettato diventa la terra promessa già intravista da Rosadini lungo gli anni dell’apprendistato, vissuti nelle vie strette e negli improvvisi slarghi, sempre chiusi da inferriate, prospicienti il porto. Poche nebbie o foschie, ma fumi e vapori di navi ferrose e talvolta corrose, bisognose di rigenerazioni così come ogni popolo deve rigenerarsi, anche nella lingua, dopo i dirupati sentieri. I giorni raccolti in quest’opera racchiudono il lavoro dell’artefice che in poesia sa narrare la propria identità, senza mai perdere di vista la fisionomia degli antenati, leggendari o meno, tramandati per innumerevoli vie. La cura del linguaggio, l’ansietà in esso, sono ben presenti senza scontentare lo sguardo.
……Le prove più recenti s’allargano in placidità lagunari, dove il battito esistenziale trova correnti più amiche, pesi alleviati dal sostentamento acquatico: è lì che trova spazio adeguato e propizio la libertà della prosa, e il racconto s’allarga fedele al ricordo e all’infanzia. I padri e le madri riescono così a parlare, a dispiegare i loro dialoghi. Rosadini può finalmente nominare i luoghi del tempo lieto, le carezze dei parchi e del lungomare che contengono le carezze degli avi. Il tempo è circolare, pochi riescono a riprenderne fili e cortesie nei loro scritti, ma in questo caso vengono in aiuto tutti gli odori dei quartieri, la concentrazione marina che è precisa e immanente fisionomia di una città. I legami di una vita tornano dagli ampi e misteriosi luoghi ebraici agli altrettanto misteriosi saliscendi genovesi, esattamente di fronte al Golfo geograficamente preciso di una città e di un’anima.
Elio Grasso

dalla sezione UNITA’ DI RISVEGLIO

*

Eppure non mi sono persa,
ho continuato ad esserci,
diversa, ad ascoltare il mondo
da lontano, le vostre voci
sussurrate piano.
Ed è il sapervi che mi ha tenuto
in vita, questi legami, a cui
sono ancorata. È stato un viaggio
della mente dentro l’abbandono,
il corpo immobile come controfigura,
e la paura, l’angoscia di non farcela da sola,
un senso di minaccia che perdura
e non si smorza, vedersi dal di fuori
nel buio colorato di rumori…
E il freddo della lama nella gola,
e non sapere cosa viene ancora…
(Lo sbattere sui ferri delle braccia,
i tubi che mi corrono la faccia…)
Se ci sarà ritorno da questo affanno
rallentato, da questo assedio
di sussulti, da questa prova
che ci è richiesta, cercando
orientamento nell’arcipelago
olfattivo in cui siamo
smarriti, in questo brancolare
infido che ci ha catturati…

*

C’è una guerra che insanguina la notte
un bagliore rallentato che si espande
e che non smette di gelar le vene –
quanto potremo ancora rimanere insieme
dispersi come siamo, scaraventati via
senza capire come e dove, abbandonati
dalla mano che ci custodiva, questa minaccia
incomprensibile che preme e che ci schianta,
questo macigno greve che ci annienta

questo vagare oscuro che non si risolve
e che cancella ciò che è stato,
ci oblitera il passato, ce lo toglie…

Un altro tempo

For us like any other fugitive,
Like the numberless flowers that cannot number

And all the beasts that need not remember,
it is to-day in which we live
.


Abbiamo tutti un segno rosso sulla gola –
la traccia del passaggio che non ci ha risparmiato,
gli anziani dallo sguardo ormai svanito
e i giovani che nulla ormai rincuora.
Io sto nel mezzo:
e non mi sono mai sentita così sola.

Effetti personali

a Paolo

Questo sarebbe stato: un salto nel buio.

E ora, tornando ai
pochi segni d’esistenza
pigiati nella busta
a intestazione ospedaliera,
mi guardo come dall’alto
di un precipizio che si è già
saltato, me stessa smarrita
di cui cerco gli indizi:
un appunto – custode di
memorie calligrafiche – su un lembo
di carta consumato, come il tempo
ormai scaduto e la penna dall’inchiostro
svaporato; la collana azzurra
e l’orologio dello stesso colore,
che continua a segnare le ore
del nostro tempo, la data incisa
sull’anello che ancora non riesco
ad infilare, e quello inesorabile
del mio smemoramento:
quel tempo pronunciato sottovoce
perché troppo grave, e troppo lento.

Una morte mancata non è una rinascita,
ma un’opportunità dimezzata.

Una foto giovanile di Giovanna Rosadini sul terrazzo di casa a Nervi

dalla sezione FRAMMENTI DI FELICITA’ TERRENA

VI.

Trasferiti a Nervi anche se i lavori non sono finiti,
conviviamo con muratori e operai. Tutto è una scoperta: il
giardino con le sue piante (i cipressi maestosi, il glicine
centenario, gli agrumi coi loro frutti color del sole; e i fiori, i
narcisi, i mughetti, gli iris viola, i siepini rampicanti che
coprono i muretti delle fasce, puntinati di viola e di blu. E la
casa, pronta in minima parte, un labirinto da esplorare; io e
mio fratello Francesco avremo una stanza per uno, io quella
col terrazzino in ferro battuto e vista sul golfo, lui quella
raddoppiata dalla soffitta, le imponenti travi a vista del tetto.

VII.

La sera esploriamo le crose che salgono per le colline intorno
alla casa. Mia madre e mio padre avanti, a passo sincrono, il
cane ansante, io e mio fratello cerchiamo di tenere il ritmo
del respiro, partiamo con la luce e dagli affacci a mezza costa
ci godiamo il tramonto che via via si allunga sul mare, dal
rosa al rosso intenso al violaceo, a ponente oltre il profilo dei
monti ad arco sul mare. A levante, sempre più in ombra, il
promontorio di Portofino. Salendo si accendono uno dopo
l’altro i lampioni lungo il percorso, serpentine di luce che
rischiarano la sera estiva. Abbaiare di cani al nostro
passaggio, la buonasera data e ricevuta dai rari viandanti. I
grilli a dare profondità al silenzio. Rientrati a casa, il premio è
l’anguria lasciata in fresco nel frigo, mangiata sotto il portico.

Dal salone viola genovese alle bianche stanze torinesi fino alla “Gialla oro”: un percorso di vita e di scrittura

Se ripenso alla mia formazione, la prima parola che mi viene in mente è solitudine. La seconda, mamma. La scrittura come solitudine di matrice materna? (Questo, probabilmente, in origine – prima di approdare, con la piena consapevolezza della maturità, a quella solitudine corale che rappresenta, secondo un’azzeccatissima definizione dell’amica Maria Grazia Calandrone, la condizione di chi scrive)…
Ma andiamo con ordine. 
Se ripenso a me stessa bambina, agli albori di una consapevolezza ancora non del tutto formata, mi rivedo in piedi di fronte ai ripiani della libreria di casa, sola nel grande salone viola che affaccia sul giardino che guarda, da metà collina, il mare.
La libreria è un’emanazione materna, stipata di volumi einaudiani, i dorsi dei Supercoralli ritmicamente allineati, Bassani, Cassola, Vittorini, Pavese, Calvino… e, lo conservo ancora qui a casa a Milano, ingiallito e con la copertina usurata, il volume delle Poesie di André Breton, col suo profilo nella foto solarizzata di Man Ray in prima di copertina… “Au temps de ma millième jeunesse/ j’ai charmé cette torpille qui brille/ nous regardons l’incroyabe et nous y croyons malgré nous (…)”. Un quarto di secolo dopo, approdare all’Einaudi sarebbe stata la realizzazione dell’incredibile menzionato in quei versi… E ancor più incredula sarei stata quando, dopo un difficilissimo passaggio esistenziale, avrei cominciato a pubblicare in quelle collane a me così familiari… Incredula, sì, ma anche no, in fondo: è stato un approdo, e un arrivo, molto naturale. All’Einaudi, nelle bianche stanze di via Biancamano, mi sono subito sentita a casa. Non solo per la presenza amica di Mauro Bersani, conosciuto da giornalista attraverso mio marito e a lungo frequentato a Milano, sua città natale, ma anche per lo spirito, austero, sabaudo e low profile, che si respirava in redazione, a cui una genovese come me non era certo estranea… Nonché per la presenza di molti genovesi (la famosa “pesto connection”), da Ernesto Franco a Lorenzo Fazio, che poi avrebbe fondato Chiarelettere. 
Tornando al salone viola e alla sua libreria, senza i quali non ci sarebbe stata Einaudi né da redattrice/editor né da autrice, in origine si è trattato di letture, com’è ovvio. Del dialogo, silenzioso e solitario, fra me e le pagine (“specchi di fuliggine bianca e inchiostro ritmato”, come scrisse Célan alla sua amica e musa di una vita, Nina Cassian). Ma questa è, necessariamente, la formazione di ogni futuro scrittore: ciò che cambia, altrettanto ovviamente, è il contesto ambientale e storico. Per me, che appartengo alla generazione dei baby-boomers, fiducia nella vita e nel futuro e una buona educazione borghese sono i tratti distintivi che mi hanno formato, e influenzato il mio modo di vedere e percepire il mondo, anche a scapito dei non trascurabili accidenti biografici. Dunque, una poetica del pieno e del senso, innanzitutto, che non prescinde da un’acuta consapevolezza del possibile rovescio delle cose, peraltro, e relativa visione disincantato/smaliziata. Ma un’infanzia felice, per fortuna, lascia un segno indelebile. E tale è stata soprattutto grazie alla solida presenza materna. Lei, la paziente ape operaia dedita al nostro quotidiano; lei, le favole la sera prima di dormire e quelle al telefono di Rodari; lei, negli anni dell’adolescenza, Falsetto di Montale letto insieme, che entrambe eravamo un po’ Esterina fra le braccia del suo divino amico un po’ quel “noi, della razza/ di chi rimane a terra”. Pur sempre donne e figlie del proprio tempo, cioè: costantemente in bilico tra il tuffo fra i flutti azzurri del desiderio e delle passioni, del richiamo istintuale del talento, e l’autocontrollo, la castrazione culturalmente (e alla fine, dopo millenni, geneticamente) indotta. In questo senso, la mia tanto criticata antologia di voci poetiche femminili (Nuovi poeti italiani 6, Einaudi 2012) ha rappresentato una vera e propria opportunità di riscatto, di cui sarò (saremo, con le amiche autrici che ne hanno fatto parte) sempre grate all’editore. Sempre a mia madre devo le letture fondamentali per la mia formazione, e la mia biblioteca domestica, oggi, è (con l’apporto dei libri di storia e politica, soprattutto medio ed estremo orientale, di mio marito Paolo) l’ideale prosecuzione di quella messa insieme da lei nelle nostre case genovesi – con una maggiore apertura alla poesia e ai temi filosofico-religiosi. Il piacere assoluto della lettura, quasi una questione viscerale, che si traduceva in una specie di formicolio addominale, una sorta di fusa interne, implicite, si è trasformato piano piano nel piacere assoluto della scrittura. Rimasta attività sediziosa e carbonara per gran parte della vita, come testimonia il mio esordio tardivo: prima venivano lo studio, il lavoro, le necessità familiari – e, in generale, la cura degli altri, fossero i fratelli minori o, in seguito, i figli, o i “miei” autori negli anni dell’oscuro lavoro di editor. A scombinare il quadro della vita un incidente nel mezzo del cammin, e la selva oscura del coma. Dopo, finalmente ho avuto l’alibi per dedicarmi a tempo pieno allo scrivere, per quanto con una mano sola. Avevo, ho, definitivamente espiato: come direbbe un altro amico, analista junghiano prestato alla scrittura, o forse viceversa, avendo offerto in olocausto (al dio interno?) un pezzo del mio stesso corpo. Ma questa, estrema, è la mia personalissima vicenda; le molte autrici amiche che ho conservano tutta la loro integrità fisica, per loro fortuna e merito.  A ciò si aggiunge, sempre per quanto personalmente mi riguarda, che, se la scrittura nasce nel segno della madre, non si realizza senza una triangolazione con una figura maschile/paterna, che faccia da catalizzatore enzimatico. Nel segno del desiderio e della mancanza: “Non dobbiamo dimenticare che la parola desiderio non rinvia solo allo scandalo di una insoddisfazione che si rinnova perennemente, ma anche alla fertilità della generazione, alla soddisfazione del riconoscimento, all’esistenza di un orizzonte che è speranza, avvenire, frutto, realizzazione, visione, sogno, comunione senza promessa di liberazione, singolarità, dono, possibilità. La parola desiderio porta già nel suo etimo la dimensione della veglia e dell’attesa, dell’orizzonte aperto e stellare, dell’avvertimento positivo di una mancanza che sospinge la ricerca (…) L’avvertimento positivo della mancanza di ciò che è necessario alla vita, l’attesa e la ricerca della propria stella”.  Così Massimo Recalcati in Ritratti del desiderio, un libro folgorante di qualche anno fa. Sembra averne avuto piena consapevolezza l’amico Davide Brullo, calatosi istintivamente nel ruolo in qualità di estensore della Nota per la raccolta poetica, Il numero completo dei giorni,  che ho pubblicato per Aragno nel 2014 (peraltro dedicata a mio marito) quando scrive: “Siamo stati benedetti dall’assenza. L’affinità che mi stringe a Giovanna è cieca, come la rinuncia del cibo per la gloria dei figli. Non sappiamo che volto abbia l’altro – ci bastano le parole (…). Solo gli ebrei sanno che Dio abita la tenda – abolisce il tempio di marmi e sassi. La tenda può assumere ogni forma, ogni sogno – la Terra promessa si realizza nell’esodo, i bastioni delle nuvole sono più duraturi delle mura di Sion”.  L’elegante copertina azzurro polvere della collana che ospita il  libro (le Licenze poetiche) è stato un felice intervallo, dovuto alla singolarità di un’opera in un certo senso pionieristica quanto a impostazione tematica (poi, in Italia, altri avrebbero ripreso la mia intuizione), fra le mie due raccolte einaudiane. 
Il presente libro lo ripropone integralmente, collocandolo nella corretta scansione temporale, ovvero fra le liriche poi confluite nella mia prima raccolta, Il sistema limbico, e Unità di risveglio, il libro che racconta in versi del mio ritorno alla vita dopo un gravissimo incidente,  pubblicato da Einaudi nel 2010. 
Ho accolto subito con grande entusiasmo la proposta fattami, qualche mese fa, da Michelangelo Camelliti e Gian Mario Villalta di pubblicare qualcosa di mio nella “Gialla oro”, la collana che testimonia della sinergia fra Pordenonelegge e LietoColle editore. Non solo perché segno della loro stima e considerazione per la mia scrittura, non solo per la qualità della collana stessa che ospita voci di primissimo livello, molte delle quali di cari amici, non solo per la familiarità con una realtà, come quella di Pordenonelegge, che rappresenta uno degli appuntamenti più interessanti del mondo poetico italiano. Ma anche per l’opportunità che avrei avuto, una volta presa forma l’idea di un’autoantologia, di dare nuova vita a un paio dei miei libri ormai introvabili, e precisamente a quello appena citato del mio esordio editoriale, Il sistema limbico, uscito nell’ormai lontano 2008 per le Edizioni di Atelier (marchio che oggi non esiste più, sostituito da Giuliano Ladolfi editore). E, appunto, al succitato Il numero completo dei giorni, a detta di molti il mio libro più significativo e complesso (una libera rilettura in versi di passi scelti della Torà ebraica, sarebbe a dire l’Antico testamento), uscito per Aragno editore nel 2014).
Il significato di questo nuovo libro che esce ora, a un anno da Fioriture capovolte, la mia seconda raccolta einaudiana, risiede in buona parte in questo e, come detto, nell’aver dato un nuovo ordine ai miei scritti, qui presentati nell’effettiva progressione cronologica, che non corrisponde a quella di pubblicazione. Cosa dovuta essenzialmente alle passate vicissitudini esistenziali, quelle per cui sono stata vittima di un incidente medico che mi ha causato un coma di tre settimane, e provocato una cesura che mi ha cambiato la vita e rimescolato l’ordine delle priorità. Completano questi miei Frammenti di felicità terrena alcuni inediti distribuiti fra una raccolta e l’altra, e un piccolo corpus eponimo, in lasse prosastiche (ovvero nella direzione che sta prendendo la mia scrittura) a conclusione del libro. 

Giovanna Rosadini

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