Roberto Caracci narratore e saggista, vive e insegna a Milano. Ha pubblicato volumi di narrativa – “L’ingorgo”, (Rebellato, 1984), “Le radici del silenzio”, (Ati, 2007) – e con Moretti&Vitali il saggio di critica poetica “Epifanie del quotidiano: Veli e bagliori nella poesia italiana contemporanea (2010). Quindi, per lo stesso editore, il saggio “Il Ruggito del Grillo. Cronaca semiseria del comico tribuno” (2013); lo studio filosofico “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore di esistere” (2016) e il romanzo “La cella della dea” (2018). Prima di “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, sempre per Moretti&Vitali, ha pubblicato nel 2020 il romanzo “Preludi&Deliri” (Pentagora editore).
Si occupa di filosofia e psicoanalisi. Ha tenuto conferenze sulla Narratologia del sogno e sul pensiero moderno, da Bergson a Nietzsche, da Freud a Severino. Dirige dal 1992 il Salotto Caracci, cenacolo letterario-filosofico a Milano.
Con “Le crepe del paradiso – Eclissi di un’infanzia”, Roberto Caracci affronta sul piano narrativo le tematiche esplorate nei suoi studi filosofici, a partire da “Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore dell’esistere”. Perché è la morte il fatto con cui si confronta il piccolo chierichetto Alessio, seguito nella sua formazione all’esistere dagli otto ai dodici anni. Ma, come lo stesso autore ha avuto modo di dire in diversi interventi, questo non è un romanzo filosofico, ma un’opera di pura immaginazione, in cui il racconto, le situazioni e i personaggi veicolano domande e risposte attraverso il loro accadere. Ed è un accadere di grande varietà.
La vicenda del piccolo Alessio, pupillo di don Luciano, che la perpetua rumena Xenia dice assomigliare a Papa Pacelli, è infatti un viaggio attraverso i morti. In una famiglia che una volta in Italia era tipica – educazione cattolicissima e profluvio di nonni, nonne, zie e prozii -, il giovane protagonista ha a che fare con moribondi che muoiono, che lasciano il loro corpo ai vivi: corpi muti, refrattari, che non possono rispondere all’unica domanda che per Alessio merita una risposta: “Cosa c’è dopo? C’è l’immortalità di cui mi parla Don Luciano o non c’è nulla?”.
Potrebbe essere un viaggio dolente, ma l’immaginazione dell’autore lo rende picaresco grazie all’uso di una categoria dello stile poco frequentata dalla letteratura italiana: il grottesco. Il capitolo dedicato allo zoppo zio Tonino, sostenitore pagano della cremazione, che in salotto tiene una volpe impagliata e l’urna con le ceneri dell’amato cane da caccia, è l’incursione in un territorio in cui lo straniamento e l’eccessivo creano la tensione tra il messaggio e lo stile. La nonna immacolata è invece protagonista di un dialogo tra una morta e un vivo – suo nipote Alessio – che non è solo la rappresentazione della potenza immaginativa dell’infanzia, ma un autentico dialogo coi morti come lo avrebbe potuto scrivere Luciano. Un gioco dell’esistenza.
“Avevo avuto altre volte la sensazione di giocare con il fuoco. Come se la potenza del mio immaginario avesse la facoltà di sfuggirmi di mano e di sopraffarmi. Mi percepivo dento un cortocircuito e mi dicevo che ero in tempo per tornare indietro, mi ammonivo a non lasciarmi andare al gioco perverso, ad uscire dal tunnel prima che fosse tardi. Il gioco è bello non solo quando dura poco, aveva concordato mio padre ma quando soprattutto riesci ad uscirne”.
E per uscirne Alessio dovrà, nell’imprevedibile capitolo conclusivo, fare i conti con l’alternativa tra vocazione e scelta, tra l’essere chiamati da e verso qualcosa che ci prescinde e l’essere chiamati a sé stessi.
“Potrei non essere nato e neanche dunque morire. Potrei avere sognato la mia nascita, immaginato la mia morte, ma dentro la bolla di una menzogna colossale, la stessa di questa strana messa del venerdì santo, dell’assemblea dei fedeli, dello strampalato discorso di don Luciano”.
Le crepe nel paradiso di Alessio, ci dice Caracci in questo romanzo laterale, sono quelle con cui dobbiamo fare i conti tutti noi, perché l’infanzia eclissa per ognuno.
Riporto l’incipit del romanzo, non a caso intitolato “Il principio della fine”.
Tutto cominciò, e cominciò a finire, quando non mi rimase nulla di quello con cui ero partito, il bagaglio che mi aveva accompagnato nel viaggio, gli effetti personali divenuti da immemorabile tempo le appendici, le vecchie pelli o le inutili zavorre ci ciò che ero. Tutto cominciò, insomma, e cominciò a volgere alla fine, quando sui palmi aperti delle mani, all’alba, non avvertii più nemmeno la sensazione dolce, prensile, pruriginosa, di ciò che si era materializzato nel corso della notte, nel magico pozzo dei sogni, e che ora evaporava. Monete, gioielli, tesori ritrovati nelle sabbie di oasi esotiche, o sottratti a grandi magazzini di metropoli, soffiati alle banche o agli uffici postali. Ma anche mani protese di amici, conosciuti per caso lungo le affollate strade del mondo, e seni di fanciulle e di giovani donne, o labbra dall’umore tiepido che ancora bagnava le mie dita. Non c’era più niente da stringere, i miei palmi rimanevano aperti e vuoti, le dita appena un po’ incurvate, pronte a chiudersi su quanto le alte maree dei sogni si compiacevano di depositare tra le mie mani spalancate, simili a foglie carnivore in attesa del contatto di uno scarabeo o della più leggiadra delle libellule per accartocciarsi sulla preda e stritolarla.
Foto della cerimonia della premiazione al settimo concorso internazionale Le Grazie – Portovenere – La Baia dell’Arte, per il romanzo “Le crepe del paradiso”, Moretti&Vitali 2001, primo premio della giuria (cliccare sull’immagine per ingrandirla):
Pubblico qui la video intervista per Rai Cultura sul mio nuovo libro “Parole per la testa!” edito da Feltrinelli Kids con le illustrazioni di Allegra Agliardi. Un modo allegro e divertente per spiegare i modi di dire, per usare con più consapevolezza la nostra lingua e per scoprire in modo semplice come funziona. Spero vi piaccia!
In Parole per la testa! Da dove arrivano i modi di dire? pubblicato da Feltrinelli Kids con le illustrazioni di Allegra Agliardi, Donatella Bisutti parte dalle metafore che sono alla base dei modi di dire. La metafora ha anche un aspetto giocoso e suggerisce che tutte le cose del mondo sono in comunicazione tra loro. Esplorando e spiegando le origini dei modi di dire e il loro meccanismo, Bisutti risale alla tradizione contadina e ai paragoni con il mondo animale vegetale di cui è intessuto ancora oggi il nostro linguaggio. Un libro per usare con più consapevolezza la nostra lingua e per scoprire in modo semplice e divertente come funziona.Imodi di dire non sono metafore che ci parlano della bellezza, bensì della vita di tutti i giorni, con tutti i suoi guai e le cose buffe che possono accadere.
Donatella Bisutti (1948), poetessa, narratrice, saggista, ha pubblicato tra l’altro la raccolta Inganno Ottico (Guanda Società di Poesia, 1985, premio Montale per l’inedito), il romanzo Voglio avere gli occhi azzurri (Bompiani, 1997), il poema ispirato all’Apocalisse, recitato anche in forma teatrale, Colui che viene (Interlinea, 2002, premi Camposampiero e Davide Maria Turoldo per la poesia di ispirazione religiosa), l’antologia The Game – Poems 1985-2005 (Gradiva, New York 2007), e ha tradotto opere dei poeti Bernard Noël e Edmond Jabès per la collana dello Specchio Mondadori. È nel comitato di redazione della rivista “Poesia” (Crocetti Editore), ha fondato e dirige la rivista “Poesia e Spiritualità” (viennepierre edizioni) e da anni tiene corsi di scrittura e laboratori di poesia nelle scuole. Con Feltrinelli ha pubblicato L’Albero delle Parole (1979, 2002), Le parole magiche (2008), La poesia salva la vita (2009), La poesia è un orecchio. Leggiamo i nostri grandi poeti da Leopardi ai contemporanei (2012) e Parole per la testa! Da dove vengono i modi di dire? (2022).
anche se mi sono trasferita a Genova, non voglio certo dimenticare i miei amici milanesi di una vita, voglio anzi costruire un ponte tra Genova e Milano favorendo gli scambi e l’interazione fra queste due città, che amo entrambe, ciascuna con la sua specificità, ma ciascuna territorio privilegiato della Poesia.
Spero quindi di rivedervi, dopo una lunga drammatica parentesi, dove usavo incontrarvi: nell’amata sede della Bibiloteca Sormani in corso di Porta Vittoria 6, a Milano, che ci ha visto tante volte riuniti, giovedì 6 ottobre alle ore 17,30. E spero che sarà un’occasione per riabbracciarci.
Un mia intervista a Dino Buzzati nell’anno del cinquantesimo della scomparsa, ripubblicata sulla Rivista online Pangea di Davide Brullo, ripropone la straordinaria figura di uno scrittore molto amato dal pubblico, ma a volte un po’ snobbato dalla critica, la cui opera rimane attualissima.
Cari Amici sabato scorso 26 marzo ho tenuto un incontro a Genova, alla Stanza della Poesia collegata al Festival Parole Spalancate di Claudio Pozzani, con alcuni poeti del gruppo Condividendo Poesia coordinato da Benedetto Ghielmi di Milano. Gli intervenuti erano venuti da diverse città, anche lontane: Pisa Padova Cuneo Varese. Si è trattato di un incontro molto simpatico in cui abbiamo analizzato insieme alcuni testi proposti dai partecipanti e parlato naturalmente di poesia, in particolare del senso che può avere oggi la poesia in tempo di guerra e di pandemia. Ringrazio tutti gli intervenuti per questa loro partecipazione e spero che l’incontro potrà ripetersi anche altrove.
Rebecca Depetris, allieva della professoressa Erminia Ardissino della Facoltà di Scienza della Formazione dell’Università di Torino, ha scritto una interessante tesi dal titolo “La poesia a scuola: un approccio emotivo e musicale”, nella quale figura un intervento di Vivian Lamarque, e una “intervista a Donatella Bisutti” a pag. 81, che potete leggere qui a seguire:
In ricordo dell’architetto e scrittore Beppe Provenzale, mio caro amico, recentemente mancato, ripubblico qui un suo saggio dull’identità di Shakespeare uscito nel n. 3 della mia Rivista Poesia e Conoscenza.
Una recensione al libro Storie che finiscono male uscita su Italian Poetry Review
La Professoressa di Anglistica dell’Università di Milano Francesca Orestano, che prima della pandemia aveva organizzato su questo libro per ragazzi un convegno internazionale nella sua facoltà, ha pubblicato una lunga e dettagliata recensione in inglese sul numero XV, di recente pubblicazione, della prestigiosa rivista che esce a cura della Columbia University, della Fordham University e The Italian Academy americana.
Ripubblico qui il mio saggio contenuto nel libro, relativo al rapporto fra le emozioni e la poesia:
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DONATELLA
BISUTTI
LE
EMOZIONI DELLA POESIA
Che cosa sono le
emozioni? Possiamo dire che le emozioni
sono il modo in cui interagiamo con il
mondo, cioè con tutto ciò che sta fuori di noi.
Un modo che non è gestito dalla parte razionale del nostro cervello, ma
innanzitutto dal nostro corpo. Il rapporto fra corpo ed emozioni è
strettissimo. Le sensazioni sono il modo in cui il nostro corpo
comunica con la nostra mente. Se proviamo una sensazione piacevole, avremo
un’emozione positiva, se invece è spiacevole, la nostra emozione sarà negativa.
I nostri stati d’animo saranno la risposta a queste emozioni positive o
negative: proveremo allora allegria o tristezza, malinconia o gioia, entusiasmo
o dolore e così via. E quando gli stati d’animo durano più a lungo diventano
sentimenti. Tutto questo viene elaborato dalla nostra mente soltanto in un
secondo tempo. Il
ripetersi di un’emozione gradevole farà nascere in noi attaccamento e
amore per quella cosa o persona che l’ha
provocata; il ripetersi di un’emozione sgradevole farà nascere al contrario un sentimento di antipatia,
disgusto, rancore, odio.
Si dice che l’organo che gestisce e vive intensamente le
nostre emozioni è il nostro cuore, ma prima di arrivare al cuore le emozioni devono
passare per i nostri cinque sensi. Se non avessimo nessuno dei nostri sensi,
non potremmo provare nessuna emozione, il mondo per noi non esisterebbe e la
nostra mente potrebbe tutt’al più funzionare come un computer.
I nostri sensi, soprattutto la vista e
l’udito, ma anche l’olfatto e il gusto
e tutta la superficie della nostra
pelle, ricevono degli stimoli
dall’esterno e le emozioni sono il loro
modo di reagire a questi stimoli. Dobbiamo imparare a non considerare il nostro
corpo solo come qualcosa che ci fa stare bene o ci fa stare male, qualcosa
che ci portiamo in giro e che ci serve
come uno strumento con cui possiamo mangiarci
un panino o scalare una montagna, qualcosa che è come un oggetto che possiamo
vestire, adornare, abbellire per mostrarlo agli altri e magari affascinarli.
Non è così, o non è soltanto così. Il nostro corpo non è solo uno strumento e
non è un oggetto: è anche un soggetto
che dice “io” alla stessa stregua della nostra mente. Per un bambino molto piccolo
il corpo è il solo modo di conoscere il mondo. Lo conosce toccando e mettendosi
gli oggetti in bocca, facendoli cadere per terra, rompendoli. Il nostro corpo è
dunque qualcuno che impara a conoscere il mondo a modo suo, e questo modo lo dobbiamo considerare anche più
importante di quello che consiste nel tradurlo in concetti con gli strumenti logici
del nostro cervello. La felicità infatti ci può venire solo da questa conoscenza
attraverso il corpo, cioè da un’interazione emozionale con gli altri e con l’ambiente che ci
circonda, non dall’uso di un computer. Se noi restringiamo la nostra conoscenza
del mondo a un computer è difficile che
possiamo essere felici. Vedere per esempio un bosco in un’immagine, anche se
perfetta, non sarà mai come attraversarlo a piedi sentendo intorno a noi il frusciare dei rami, la carezza dell’aria,
l’odore del muschio e dei funghi nascosti, il mistero delle ombre profonde, il
vibrare dell’erba al passaggio furtivo di uno scoiattolo, il mormorio di un
ruscello che lo percorre. E insieme la
sensazione di fatica mentre camminiamo,
l’attenzione che dobbiamo avere nel muovere i passi fra le pietre e il terriccio del sentiero e
magari l’indolenzimento dei nostri piedi. Senza questa serie di sensazioni e di emozioni che
da queste sensazioni derivano non avremo mai conosciuto il bosco. E invece in
questo modo il bosco si imprimerà così profondamente prima di tutto nella
memoria del nostro corpo che diventerà in qualche modo parte di noi e di questa conoscenza che ne abbiamo avuto
ci potremo ricordare anche a distanza di anni e riprovare quel senso di
felicità, di stupore, di meraviglia e magari anche un po’ di paura che abbiamo provato allora. Questo arricchisce la nostra vita.
Certo possiamo provare delle emozioni anche
vedendo delle immagini, un film, un
video, però sono emozioni incomplete, alle quali il nostro corpo partecipa poco
e per questo si tratta di emozioni che in genere svaniscono rapidamente perché non ci
appartengono davvero, non sono davvero “nostre”, bensì sono emozioni create da
altri, che noi per qualche attimo prendiamo a prestito. Dobbiamo stare attenti
a non lasciare troppo spazio a questo tipo di emozioni perché sono corpi
estranei che si installano, invadono la
nostra mente senza passare per i nostri sensi e la abituano a vivere di surrogati
di emozioni reali che sono come un cattivo cibo, a vivere una vita che non è la
nostra. Queste emozioni artificiali non ci danno dei ricordi veramente nostri
ma ci manipolano, ci condizionano, mentre il nostro corpo rimane inattivo ,
quasi immobile, quasi inutile e, lì seduto, per compensare la sua frustrazione
spesso si nutre in maniera compulsiva di
altro cattivo cibo, finché diventa obeso e si ammala. Più ci allontaniamo da emozioni vere, più la nostra vita diventa simile a quella di
un robot che sa tutto, prevede tutto, organizza tutto, ma non sente niente.
Quanto le emozioni abbiano a che fare con il
nostro corpo lo si può vedere facilmente. Infatti ci sono emozioni che ci fanno
diventare le guance rosse come pomodori, oppure altre che ci fanno diventare
bianchi come stracci. Emozioni che ci fanno tremare le mani, oppure drizzare i
capelli in testa. Altre che ci fanno balbettare, altre ancora che ci
prosciugano la saliva, o addirittura ci impediscono di parlare. Emozioni che ci
fanno ridere irrefrenabilmente, oppure piangere a dirotto. E ancora: ci fanno battere
i denti, ci fanno sudare, ci fanno venire la pelle d’oca, oppure il singhiozzo.
Quanti strani effetti ci può fare un’emozione! Può farci ballare, saltare, ci
può far emettere una quantità di suoni diversi: oooh se vediamo qualcosa di strano e di meraviglioso, ahi se ci fa male da qualche parte, aah se qualcosa ci fa paura.
Le emozioni per definizione ci coinvolgono,
le proviamo quando non possiamo restare indifferenti. Qualcosa di noioso non ci
dà invece nessuna emozione, a meno di non voler considerare un’emozione anche
uno sbadiglio. Senza emozioni la nostra vita sarebbe un seguito di sbadigli.
E’ vero però che non tutti sentono le
emozioni con la stessa intensità, anzi ci
sono alcune persone che non le sentono affatto. Il modo in cui una persona
sente le emozioni lo chiamiamo
“carattere”. E’ come se ciascuno di noi avesse dentro uno speciale termometro che misura le
emozioni come si misura la febbre. Ci sono persone in cui la febbre non sale
mai, questo termometro ce l’hanno sempre basso, segna magari 8 o 9 gradi: si
dirà allora che hanno un “carattere freddo”. Sono simili a dei frigoriferi:
qualsiasi cosa gli metti dentro si raffredda o, se viene inserita nel reparto
freezer, addirittura si gela. Qualsiasi
cosa gli succeda, queste persone non danno mai segni di emozione: rimangono
impassibili. Questa è da alcuni considerata
una grande qualità. In effetti va molto bene se uno vuol diventare uno 007 che
affronta senza batter ciglio qualsiasi pericolo. Però queste persone hanno dei
rapporti difficili con gli altri: gli altri sentono questo freddo che loro hanno
addosso e subito hanno voglia di infilarsi un golfino e siccome devono andare a
prenderlo, si allontanano con una scusa e poi incontrano qualche amico per
strada e non tornano più. D’altra parte
ci sono anche persone il cui termometro sale velocissimo e diventa subito
bollente: queste persone hanno sempre emozioni esagerate, per esempio gli basta
pochissimo per arrabbiarsi, si arrabbiano per delle stupidaggini, magari perché
un’altra macchina va più veloce di loro e li sorpassa o perché qualcuno occupa
prima di loro un parcheggio, oppure si mettono subito a piangere se perdono una
partita a calcetto.
Sono
persone che si fanno travolgere dalle loro emozioni: è come se andassero a
cavallo e quando il cavallo si mette a un galoppo sfrenato non riescono a trattenerlo,
cadono dalla sella e qualche volta possono anche rompersi la testa. Anche queste
persone hanno pochi amici perché fanno paura o sono fastidiose per gli altri.
Però ci sono anche quelli che hanno cosi paura che la temperatura del loro termometro
si alzi troppo e gli faccia venire la febbre che appena la sentono salire
subito vanno a farsi una doccia e così si raffreddano e il termometro scende. Magari
sono proprio le stesse persone che ci sembrano impassibili. Ma a forza di
passare dal caldo al freddo alla fine si sentono male e devono andare dal
dottore Esistono infatti dei dottori
delle emozioni che si chiamano psicoanalisti o psicoterapeuti , i quali aiutano
queste persone a regolare i loro termometri. Un’operazione tuttavia lunga e
faticosa.
Ma il punto è proprio questo: che cosa
dobbiamo fare con le nostre emozioni se sono troppo forti? Dobbiamo lasciarci
trascinare oppure puntare i piedi per non essere trascinati?
Abbiamo bisogno di qualcuno che ci
insegni come vivere al meglio le nostre emozioni. Un assessore alla
cultura nel corso di un recente convegno
cui ho partecipato si chiedeva: “Un’educazione all’emozione è possibile?” Io
credo di sì: non solo è possibile, ma è necessaria.
Finora ciascuno era lasciato ad arrangiarsi
da solo. Questo può creare come abbiamo
visto molti problemi, molte difficoltà. C’è chi ha la vita rovinata per via di una cattiva gestione delle
emozioni, soprattutto nei rapporti con gli altri, specialmente nei rapporti d’amore,
che di emozioni ce ne danno tantissime. La gelosia, la rabbia e l’odio sono
emozioni che possiamo provare facilmente e da cui spesso non sappiamo
difenderci.
L’emozione è una forma di energia, un
aumento di energia dentro di noi. Ma questa energia abbiamo visto che non ha
sempre un segno positivo: dipende da quello che ci succede. Ci sono energie con
il segno meno, energie negative. Sono queste soprattutto che ci mettono a
rischio, benché a volte anche un eccesso di entusiasmo possa diminuire la
nostra attenzione e farci andare a sbattere contro un muro. Ma certamente sono
le energie negative a metterci più in difficoltà: quelle che
si sprigionano da una paura, un dolore, una perdita, un pericolo.
Tuttavia noi non dobbiamo cercare di cancellare le nostre
emozioni per far scendere il termometro. Non dobbiamo bloccare la nostra
capacità di emozionarci. Le emozioni sono molto importanti. Sono loro a
farci sentire vivi. Le emozioni sono i movimenti del nostro cuore. Ed è il
cuore che ci fa vivere. Non siamo solo cervello.“Cuore” significa la nostra
immaginazione, la nostra fantasia, i nostri sentimenti, sogni, desideri: non
possiamo rinunciare a tutto questo senza perdere la ricchezza della nostra
vita.
Che cosa fare allora con le
nostre emozioni? Educazione
all’emozione vuol dire non lasciarsi andare in balia delle emozioni perché
un’emozione che sia fuori controllo può distruggerci. Vuol dire accettare di viverle,
ma anche capire che questa energia possiamo trasformarla
:in qualcosa che ci aiuti a
vivere meglio.
Abbiamo visto che
l’emozione è un movimento che va dall’esterno, da ciò che accade al di
fuori di noi, verso il nostro interno:
in questo movimento noi siamo in un primo momento passivi, lo subiamo come
un’energia che non ha avuto origine in noi. Ma se decidiamo di portare consapevolmente questa
energia verso l’esterno volgendola dal negativo al positivo, dal segno meno al segno più, ecco che avremo ripreso il controllo e saremo diventati dei
soggetti attivi in grado di utilizzare al meglio il suo potenziale. L’energia
infatti di per sé non ha alcun segno: siamo noi
che possiamo renderla positiva o negativa . E in questo consiste la
nostra libertà e la capacità di guidare verso il successo la nostra vita. Non
butteremo via tutto quel potenziale, vi pare?
E’ a questo
punto che la poesia può indicarci la giusta direzione. A questo rapporto fra
poesia ed emozione ho dedicato anni di studi e di riflessioni e diversi libri,
aprendo la strada, credo, a un nuovo approccio con la poesia.
La poesia può
essere la chiave più preziosa per un’educazione all’emozione. Perché? Perché
anche la poesia ha a che fare con le emozioni. Una poesia che ci trasmetta solo concetti non è una poesia
degna di questo nome. La poesia non è un saggio, una narrazione, un trattato di filosofia o di
scienza: attraverso le parole essa ci vuole trasmettere un’emozione. Il significato della poesia non può
essere compreso attraverso la pura e semplice spiegazione di quello che le sue
parole “vogliono dire” – allora perché si dovrebbe scrivere una poesia?
Basterebbe scrivere in prosa! E come ce la trasmette l’emozione? attraverso
delle sensazioni, proprio come accade nella nostra esperienza. Anche la poesia
è in questo senso una forma di esperienza: ci trasmette infatti anch’essa delle
sensazioni. Ci trasmette l’emozione del poeta non raccontandola, ma creando le condizioni
per cui la possiamo provare direttamente anche noi insieme a lui. Il suo è l’unico linguaggio verbale capace di
trasmettere un’esperienza, proprio perché si serve delle sensazioni. Perciò ci permette di esprimere le nostre
emozioni partendo da ciò che le ha
originate, sia che leggiamo sia che scriviamo. Solo così esse diventano
trasmissibili, e il fatto di poterle trasmettere è qualcosa di essenziale. Anche la poesia infatti trasforma
le sensazioni in stati d’animo, perché anche la poesia, prima che per la mente
e per il cuore, passa per il corpo. Questo potrà sembrare strano a chi ha
sempre pensato alla poesia come a qualcosa di etereo, spirituale e
smaterializzato: una concezione che affonda le sue radici in una lunga
tradizione retorica che ne ha completamente travisato la natura. Infatti la poesia è linguaggio e
il linguaggio dove nasce? Nel corpo e dal corpo. Il linguaggio del corpo, fatto
di semplici suoni, è il linguaggio originario, quello che ogni bambino piccolo
riscopre. Le più antiche parole della lingua ne mantengono le tracce
perché spesso la loro etimologia ormai dimenticata è onomatopeica cioè
riproduce dei suoni della natura, degli
animali, degli oggetti. O anche dei
ritmi, dei movimenti. Abbiamo ragione di pensare che il linguaggio abbia avuto
origine dalle emozioni e sia nato per esprimere emozioni. Ne rimangono tracce
nelle esclamazioni che riempiono ancora anche le pagine attualissime dei
fumetti.
La poesia è ancora oggi un “linguaggio del
corpo”. E’ l’unica forma di scrittura che abbia conservato questo rapporto
preciso ed essenziale con il corpo, un linguaggio fatto di suoni, di
onomatopee, di ritmi e soprattutto di sinestesia: La
poesia è un orecchio , come dice il titolo del mio libro uscito da
Feltrinelli nel 2012 , che recupera attraverso un ascolto dei suoni e una
“lettura emozionale” i grandi classici della nostra poesia, da Leopardi a Luzi.
Questo libro contiene una analisi accurata, nei singoli testi, dei modi e delle
caratteristiche di questo linguaggio sensoriale/emozionale e ad esso rinvio per
entrare in modo più approfondito nella specificità del “linguaggio del corpo”
che contraddistingue la poesia. Farò solo un esempio prendendo spunto da una
poesia che avevo scelto nel libro, di Corrado Pavolini, intitolata Ragazzo negro, e che riporto qui:
Qua la mano, fratello.
Come amo il tuo spaurito cuore,
la forma del tuo cranio,
il tuo paradiso perduto.
Con le tue stesse spazzole
curvo su eguali scarpe
lucido insieme a te
con servil cura, sudando,
il mio terrore dei bianchi,
guardo riflesso nel cuoio
questo me maledetto.
Allegro è il sole, cantano
uccelli e clakson e noi
siamo neri, fratello.
Vorrei soffermarmi sul finale, sugli ultimi
tre versi. Sulla singolare musica che risulta dal mescolarsi delle note
indisponenti e “innaturali” dei clacson alle note allegre del cinguettio degli uccelli, che invece ci
parlano di sole e di vita: da questo
mescolarsi ma anche contrapporsi risulta un canto allegro ma al tempo stesso un
po’ stridente, ed è proprio questo suono
discorde a “dirci” lo “stridente”contrasto fra un ideale di fratellanza e una
realtà di discriminazione. Tutto questo non è dichiarato, ci arriva solo attraverso
la “sensazione” di un particolare tipo di suono, una sensazione di stridore,
che si trasforma subito in emozione, trasmettendoci l’esperienza di quell’assurdo malessere, quel
senso di esclusione che prova il poeta: siamo lì con lui, e la proviamo anche
noi, essa entra nel nostro cuore ben più profondamente che se ci
fosse stata “spiegata”con tante parole. E’ così che funziona il linguaggio
della poesia.
Ma che cos’è la sinestesia? Secondo
l’etimologia, la sinestesia , che unisce
in una stessa immagine sensazioni diverse, significa
“percepire insieme” e quindi
anche, per estensione, “mettere insieme”. Sinestesia è dire per esempio “un suono
freddo” (udito + tatto) o “ un rosso piccante” (vista + gusto). Sinestesia è,
in senso lato, il linguaggio stesso della poesia, che non solo connette
sensazioni di diversa provenienza, soprattutto colore e suono (diceva il grande
poeta portoghese Texeira de Pascoaes:
“Il suono è lo spirito del
colore” ) , ma nelle metafore “mette insieme” le cose apparentemente più lontane.
La scintilla che provoca questi cortocircuiti è però sempre l’intensità dell’emozione
che il poeta ci vuole trasmettere.
La poesia è quindi un Linguaggio delle
Emozioni. che usa le parole in
modo diverso da tutti gli altri linguaggi fatti di parole: le usacome
se esse fossero soltanto sensazioni, suoni, colori, ritmi, forme. Le usa come
un musicista usa le note e un pittore usa le matite e i pennelli. Le parole
usate in questo modo sono quelle capaci di farci vivere un’emozione. Così una
poesia ci fa vivere l’emozione del poeta che l’ha scritta. Essa diventerà anche
la nostra emozione. E questa emozione sarà il suo vero e completo
significato. Per questo la poesia è importante e necessaria alla
nostra vita: essa ci ricorda di
continuo che non dobbiamo solo “ragionare” ma anche “sentire” . Naturalmente le
“sensazioni” che la poesia ci trasmette sono immaginarie, cioè sollecitano i
nostri sensi attraverso l’immaginazione:
le immagini che “vediamo” si formano nella nostra mente, così come i suoni che essa evoca – suoni del traffico di una
città, suono delle onde del mare, suoni dei canti degli uccelli – così come
sono immaginari gli odori e i profumi e le sensazioni tattili che percepiamo,
ma che non sono per questo meno “reali” in quanto esse agiscono “realmente”
sulla nostra sfera psichica. In questo modo la lettura di una poesia diventa
una “esperienza” e attraverso questa “esperienza” l’emozione che le ha dato
origine rinasce e si trasmette, non raccontata, ma vissuta, condivisa tra il
poeta e il lettore. La poesia ci insegna così anche a giocare con la nostra immaginazione,
ad attivarla, a mettere nel testo del poeta qualcosa di nostro.
La
cosa più importante, riguardo a una “educazione all’emozione”, è questa
possibilità che ha la poesia di trasmettere un’emozione in quanto tale, di
condividerla.
La poesia ci insegna quindi prima di tutto che
un’emozione si può esprimere, e questo è il primo modo per diventare, da
individui che subiscono passivamente, soggetti
attivi. Tutta l’energia che una emozione ci suscita non possiamo infatti tenercela
dentro: come un pallone troppo gonfiato, essa rischia di farci “scoppiare”, crea
un ingorgo che ci fa male. Dobbiamo esprimerla , riportandola fuori di noi, e
non bastano per questo poche esclamazioni, ci vuole qualcosa di più articolato del
limitarsi semplicemente a ridere e a piangere. Esprimerla vuole dire comunicarla
agli altri, condividerla. Condividerla non è
la stessa cosa che raccontarla. La fisicità infatti non si può raccontare, bisogna sperimentarla. Perciò
la poesia con il suo linguaggio fatto di sensazioni corporali è l’unica che ci
permette di trasmettere agli altri le
nostre sensazioni ed emozioni più profonde aprendo un varco in quel muro che
separa noi umani uno dall’altro, quel muro di solitudine e di incomunicabilità
che fece scrivere a Salvatore Quasimodo il famoso verso: “ Ognuno sta solo sul
cuor della terra / trafitto da un raggio di sole.” Questo muro di separatezza non si può totalmente
abbattere ma attraverso quel varco si può magari infilare un braccio e stringere la
mano di un altro che ci è vicino.
Per lo stesso
motivo scrivere noi stessi una poesia ci può aiutare, esprimendole e
condividendole con gli altri, a superare
emozioni dolorose e in questo senso ci può “salvare la vita” come dice il titolo di un altro mio libro, titolo
ispirato alla vicenda reale dell’architetto Belgioioso che riteneva di essere riuscito così a
sopravvivere agli orrori del campo di concentramento nazista in cui era stato
per anni rinchiuso.
Ma c’è
un altro motivo per cui la poesia ci
può fare da maestra per un’educazione all’emozione. Infatti essa non si
limita solo a farci esprimere e
condividere l’esperienza di un’emozione, ma la trasforma. La trasforma in un oggetto di bellezza, cioè la singola poesia stessa : una poesia si
propone infatti di realizzare, a partire da un’esperienza e da un’emozione,
attraverso i suoni e le immagini, una perfezione di bellezza. Un “oggetto” compiuto in sé secondo regole di composizione
e di metrica, rime o assonanze,
ritmi e sospensioni, simili a
quelle di una partitura musicale. Una bella poesia può essere paragonata a una
sonata, un poema a una sinfonia. La poesia per sua vocazione tende alla
bellezza e quando la raggiunge è questo quel segno meno che si trasforma in più:
un grumo di dolore che si trasforma in armonia, attraverso un atto di
creatività. Chi scrive una poesia dà una forma alla sua emozione come un vasaio
dà forma a un vaso.
Così facendo la
poesia ci indica anche una strada più
ampia, come la stella polare ci indica la rotta verso nord: appunto la strada
della creatività, anche al di fuori della poesia stessa: è questa anche più in
generale la strada per vivere bene le
nostre emozioni trasformandole in
qualcosa di più grande, in un’armonia che non rimanga confinata nel nostro io
ma si apra verso gli altri e doni loro qualcosa con cui possono a loro volta
arricchire la loro vita.
In memoria della poetessa ligure di cui è ricorso il centenario della nascita il 29 ottobre scorso, ripubblico qui una sua poesia che figurava nel Dossier a lei dedicato, allegato al numero 1 della mia rivista Poesia e Conoscenza, intitolata Tempo di Dio, perchè mi ha colpito, a distanza di tanti anni da quando era stata scritta, la sua straordinaria attualità, che appare oggi addirittura profetica, come è spesso della grande poesia.
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ELENA BONO
TEMPO DI DIO
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Finite di piangere su di voi e sopra i morti finite di ballare sulle tombe non vi accorgete che a noi è richiesto più che ai figli di ogni altro tempo? Ora bisogna ricreare il mondo in ciascuno di noi o finiremo. Ricordarci la nostra somiglianza con Dio e indurre Dio a ricordarla. Ora bisogna avere tanta forza da imporre al cuore la speranza, amore più che umano agli umani, volontà di vita per tutti. Non è tempo di lutti né di follie. Questo è tempo di Dio. Che aspettiamo? Quale segno? Quale miracolo? Eppure abbiamo visto crocifisso in migliaia di corpi Gesù Cristo.
da Poesie Opera Omnia ed. Le Mani 2007 per gentile concessione dell’editore
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Ripropongo qui la copertina del Dossier che nel marzo del 2015 avevo dedicato alla figura di Elena Bono scomparsa nel febbraio del 2014 all’età di 92 anni. La poetessa ligure, anche nota autrice di teatro, era diventata un caso letterario per il suo quasi totale isolamento dopo che i suoi libri di poesia erano stati rifiutati dai maggiori editori benchè avesse esordito da Garzanti e fosse da alcuni considerata una delle voci poetiche più importanti della seconda metà del Novecento. A questo isolamento l’Autrice attribuiva motivazioni ideologiche dovute in particolare alla sua connotazione fortemente cattolica. Tuttavia Elena Bono aveva un folto gruppo di estimatori e lettori appassionati ed è probabile, oltre che auspicabile, che dopo la sua morte, come talvolta accade, il suo nome e la sua opera siano più presenti di quando lei era in vita.
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Nel dossier era contentuta una sezione di Testimonianze che conteneva tre ricordi di persone che l’avevano conosciuta e avevano avuto con lei un forte legame: Viviane Ciampi, Rosa Elisa Giangoia e Elvira Landò, tutte e tre poetesse e studiose, figure rappresentative del mondo culturale genovese e non solo.
Ho pensato di ricordare oggi Elena Bono ripubblicando qui questi loro interventi:
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VIVIANE CIAMPI
L’AMORE PER IL TEATRO
Conobbi Elena Bono nel 1996 in occasione della rappresentazione teatrale di un suo dramma FlamencoMatto poi, ebbi occasione d’incontrarla molte volte nella bella casa di Chiavari dove si era ritirata in quasi ascetica dedizione alla scrittura. E del mio primo vero incontro con la romanziera-poetessa-drammaturga, vorrei far partecipe il lettore che non la conoscesse, per inquadrarne la figura e la personalità.
Un sabato di fine giugno a Chiavari.
Elena Bono mi aspetta per un progetto di
traduzione in francese del poemetto Invito
a Palazzo apparso in seguito sulla rivista canadese Estuaire e sul sito
Mouvances. Poemetto che, al pari di altre sue opere – le è stato ‘dettato’ in
sogno, come dettati in sogno sono i nomi orientali i quali – racconta Elena – «arrivavano
di notte e talvolta mi svegliavano per la smania di essere scritti sulla pagina».
Quella prima volta mi accoglie il marito
Gian Maria Mazzini, figura importante dell’imprenditoria ligure e della
cultura. Tra i suoi avi Giuseppe Mazzini. È al marito negli ultimi anni della
sua vita (a causa di un ictus che colpirà Elena nel corpo ma non nella mente)
detterà le sue opere poetiche e teatrali, i suoi saggi, i suoi romanzi.
Gian Maria mi fa strada: percorro un lungo
corridoio di libri e quadri antichi alle pareti, corridoio impreziosito da una
fitta collezione di stampe del Seicento, da medaglieri con le onorificenze dei
personaggi di spicco di casa Mazzini e in quel medagliere figura anche Elena
Bono insignita dell’ordine della Commenda dall’allora presidente della
repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
Elena, che arriva poco dopo nel salotto, non ama i convenevoli e si dimostra subito interessata a ‘l’air du temps’ che si respira oggi in Francia dal punto di vista politico e culturale, alla musica che potrebbe accompagnare future sue opere teatrali «anche se da parecchio tempo ascolto soprattutto il silenzio!», agli abiti di scena che ha immaginato per tale personaggio e mi fa partecipe del suo grande amore per la cultura greco-latina – con suo padre preside di una scuola di Chiavari parlava abitualmente in latino non per sfoggio ma per reale amore di quella lingua–.
Elena è dotata di particolare religiosità
e questo traspare in tutta la sua opera pur non escludendo il dubbio da cui è
stata assalita molte volte e l’intervento della ragione. Per Elio Gioanola,
prefatore dell’Opera Omnia il percorso mentale della poetessa è chiaro: “Forse
non c’è stata altra vita d’artista, nella nostra modernità poetica, così
radicalmente offerta ad una vocazione”.
Mi parla di come fu gioiosa – pur se
sofferta – una sua traduzione di Sofocle, di quanto la traduzione sia di
stimolo al nascere delle sue opere e quanto la figura del traduttore, specialmente
in poesia sia poco capita non solo dai lettori ma da molti poeti non traduttori.
E nel mentre mi prende le mani tra le sue s’interrompe,
per osservare la stoffa del mio vestito, la sfiora con le dita quasi per un
sussulto di levità. Ma non è frivolezza questo atteggiamento, in quanto tutto
va riportato alla sua creatività, all’amore per il teatro che estendeva non
solo alla sceneggiatura ma anche alla scenografia e ai costumi. Quando mi
saluta mi confida in un buon francese – amava, per vezzo utilizzarlo ogni tanto
così come i dialetti –: “J’ai demandé à
Dieu de ne jamais écrire des bêtises!» (« Ho chiesto a Dio di non scrivere
mai sciocchezze!”).
Una delle ultime volte che la vidi fu alla
‘Festa del Teatro di San Miniato’ (Pisa) una bella estate di qualche anno fa
dove si rappresentava il suo dramma teatrale Le spade e le ferite per la regia di Ugo Gregoretti in cima alla
Torre Saracena in cui convocava Pier delle Vigne (Marco Spiga), Innocenzo IV (Eros Pagni) e Federico II
(Massimo Foschi). Rivedo Elena, stanca ma felice con le scarpe basse e di raso
che uscivano dalla doppia gonna.
“Guarda quanti spettatori!” dice Gian Maria
in attesa della rappresentazione. A quel punto un giornalista chiede alla
drammaturga: “Chi sono i buoni e chi i cattivi?” e poi “Che cosa significa
stare in bilico tra il bene e il male?”. Elena risponde scherzosa: “ Questo non
lo sappiamo e neppure la scienza può dipanarlo”.
Vederla attendere la notte toscana a
testa china sul programma, è un vero privilegio. Più tardi, a notte fonda, il
calore degli applausi copre un fitto tramare di rane.
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ROSA ELISA GIANGOIA
UN
REALISMO SPIRITUALE
Conoscevo da tempo la poesia di Elena Bono,
di cui avevo letto alcuni libri soprattutto su indicazione della mia cara amica
poetessa Margherita Faustini, ed avevo molta ammirazione nei suoi confronti,
per cui, quando venne l’occasione di incontrarla, ero molto contenta, ma anche
piuttosto emozionata.
L’avevo invitata, insieme ad altri poeti
genovesi (Elio Andriuoli, Aldo G.B Rossi, Margherita Faustini e forse qualche
altro che ora non ricordo) alla Biblioteca Servitana, per un recital di poesie religiose in omaggio
al servita e poeta padre David Maria Turoldo.
Elena
Bono accettò volentieri l’invito e mi disse che avrebbe letto almeno una poesia
sulla Madonna, perché era sua abitudine, in ogni recital, in qualunque
occasione e ambiente, dedicare una poesia a Maria. Mi piacque questa sua
esplicita dichiarazione, mi diede l’impressione di una persona determinata e
decisa, sicura nella sua fede, un testimone, insomma.
Poi ci furono varie altre occasioni
d’incontro e si stabilì un certo dialogo, per cui capii che per lei due cose
erano particolarmente importanti, la sua fede religiosa e la sua giovanile
ammirazione ed adesione ideologica alla Resistenza partigiana. Mi disse infatti
che a lei «giovinetta» (e si riferiva al periodo di sfollamento sull’appennino
ligure), tramite il sacrificio dei suoi compagni e coetanei, la Resistenza
aveva «rivelato l’eterno ripetersi della Passione redentrice di Cristo
attraverso la storia e il dovere per ognuno di noi di essere presente e
facitore (non semplice spettatore) nella Storia.» A questo proposito riprendo
con precisione le parole dell’intervista compresa nel n. 10 di LETTERA in VERSI dell’ottobre 2004 che
le ho dedicato (https://bombacarta.com/wp-content/uploads/letterainversi/letterainversi-010.pdf),
anche se sono concetti che le ho sentito ripetere diverse volte.
Capii così che per lei la Storia era molto
importante, erano soprattutto molto rilevanti i comportamenti degli uomini, in
particolare di quelli che avevano avuto responsabilità in eventi determinanti,
in cui, schierandosi da una parte o dall’altra, avevano preso posizione, per
loro, ma anche per altri, per il Bene o per il Male. Di qui era nato quel suo
realismo spirituale, via d’uscita dalle ideologie, posizione imperdonabile nel milieu letterario del momento, che
l’aveva portata a riflettere sulla drammatica contrapposizione nella recente
coscienza europea tra tentazioni superoministiche e fedeltà alla morale,
impersonata, a suo giudizio, dall’azione dei partigiani. Ma dalla sua visone di
contrapposizione e necessità di scelta tra Bene e Male, con senso di
responsabilità in prospettiva escatologica, erano nate anche le sue opere di
narrativa e di teatro, sempre di alto livello etico, in cui l’uomo, agendo
nella Storia, si trova a doversi porre di fronte all’Assoluto, pur nella
consapevolezza della presenza e dell’azione della Provvidenza nella Storia.
Capii che per Elena Bono nella Storia
tutto era contemporaneo, perché immutato è lo spirito dell’uomo di fronte al
Bene e al Male.
Nel volgere di pochi anni le condizioni di
salute di Elena Bono divennero quanto mai difficili e qui ci fu da parte sua, pur
con quel suo corpo minuto e fragile, una grande lezione di accettazione e di
pazienza, per quel suo sopportare, non tanto con rassegnazione, ma piuttosto
con energia intellettuale e spirituale, tutte le limitazioni della sua
condizione, tenendo sempre vigile e attento il suo mondo interiore, cosa che
dimostrava la sua abitudine ed attitudine a nutrirlo, ad arricchirlo con la sua
Fede, per mantenerlo forte. Si capiva, come disse ancora nell’intervista a LETTERA in VERSI, quanto fosse importante
per lei il fatto di aver imparato “da Dio la misericordia non solo verso gli
altri ma anche verso la nostra povera persona con tutte le sue molte miserie
corporali e spirituali”. Così infatti ha guardato a se stessa e alla sua vita,
anche dopo la morte dolorosa del marito, lungo le difficoltà e le sofferenze che
l’esistenza le ha riservato fino alla fine. Questo perché credeva fermamente
che l’uomo, nella pienezza della sua umanità, condividesse con Dio una
somiglianza e perciò il senso di tutti i Valori.
Una volta ebbi a chiederle chi poteva essere
per lei un esempio di quest’uomo veramente umano, chi poteva rappresentare, a
suo giudizio, una figura ideale. La sua risposta subito mi stupì, mi sorprese,
perché avrei immaginato mi indicasse un grande del passato. Invece mi disse: “Bisagno”.
Era questo il nome di battaglia durante la Resistenza di Aldo Gastaldi, il
primo partigiano d’Italia, cattolico, morto subito dopo la Liberazione a
seguito di un incidente su cui permangono molti dubbi. Poi, ripensando alla sua
valorizzazione della Resistenza, capii le ragioni della sua scelta, quelle che
ben chiarisce nella lirica O Bisagno,
in cui tratteggia la figura di questo giovane che si è impegnato per il bene di
tutti, partendo dalle idee di giustizia, libertà e fratellanza apprese dai
Vangeli.
L’adesione alla Resistenza rimase viva per
Elena Bono per tutta la vita. Per lei l’8 settembre del ‘43 era stato il giorno
del ridestarsi alla Storia, di fronte a cui aveva capito che non bisognava
chiudere gli occhi di fronte alla realtà, ma guardarla bene dentro di sé per
comprenderla e capire che cosa si dovesse fare. Infatti la poesia che mi diede
per l’antologia Notte di Natale (2005)
rievocava ancora un Natale di guerra, quello del ’43, appunto.
Quest’attenzione alla realtà, però, per lei era anche l’atteggiamento che si
doveva continuare ad avere al giorno d’oggi, dato che ormai «tutto rischia di
esteriorizzarsi».
Anche la fedeltà al culto della Madonna
l’accompagnò fino alla fine. Infatti l’ultima poesia che mi diede per l’antologia
Ti prego (2011) era dedicata a Maria
(Ecco già la fanciulla).
Una grande lezione di fedeltà la sua,
fedeltà alla Fede capace di orientare nella vita e nella Storia.
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ELVIRA LANDÓ
L’ASSOLUTO NEL
QUOTIDIANO
Elena Bono, la più alta e originale voce
poetica del secondo Novecento, si è spenta la sera del 26 febbraio 2014.
Da quando il padre Francesco Bono vi
era giunto quale preside del liceo Federico Delpino, nel 1931, era vissuta a
Chiavari, nel quartiere più occidentale, tra il mare e le ombre scure dei monti che vi discendono a
picco: – I monti neri della mia
terra…questo nero Appennino, mandria di tori neri che corre al mare e quando il
tuono va di monte in monte ha fragore di zoccoli…”
Così inizia Fanuel Nuti, il terzo volume della trilogia Uomo e Superuomo, cui Elena Bono si dedicò dal 1957, e così
certamente apparve a lei bambina quello scorcio di paesaggio, tra luci
d’acciaio e rupi alternate ad olivi e pini, tragicamente duro ed evocativo di
drammi. Poi Chiavari le piacque e scrivere della sua storia e dei suoi segreti
con sguardo attento e sensibilità senza pari fu per Lei intrapresa
appassionata: in Fanuel Nuti oltre al
dramma di quella lotta fratricida e al funesto scontro di civiltà, quella della
morte e quella della libertà, Chiavari, il suo entroterra e i diversi
personaggi vengono raffigurati con icastica seduttiva verità.
Alla Bono staffetta partigiana dobbiamo
infatti le più belle e originali pagine sulla Resistenza. E Chiavari, emblematico
di mondi più vasti, restò il suo luogo reale, dove in quasi ascetica
semplicità, ma attorniata sempre dalla bellezza, compose le sue opere,
ininterrottamente, sino agli ultimi anni, dettandole poi quando gli occhi del
corpo non l’aiutarono più, sostituiti da uno sguardo capace di scavare sino
alle soglie del mistero.
Del resto, così empaticamente ricettiva
di emozioni ed esperienze, al punto di piangere
sotto il busto di Giacomo Leopardi – Giacomino come lo chiamerà sempre
– nella villa frequentata da Francesco
Bono preside a Recanati quando lei era ancora di cinque, sei anni, Elena avrà
sempre di Chiavari una visione più tragica che idillica, come mi raccontava
quando ripensava con me le passeggiate che, bambina, faceva con il padre. Lungo
i sentieri che li portavano mano nella mano verso le colline di Bacezza, Ri
Alto, S. Giulia, passava fra loro il musicale mistero della parola. Ritmi
arcani, che a lei suonavano forse come presagi, cifra di verità che si andavano
svelando, mentre il cuore cresceva, e già evocavano gli spiriti magni, e Antigone
e Cassandra, e Medea, e Catullo e Virgilio… ma anche Adamo, e Pilato, e il centurione…e il Cristo
– sofferente e amoroso… E mentre dall’alto insieme guardavano il mare pezzato
di porpora e gli olivi che si piegavano al vento, le diverse favelle, greco
latino italiano, erano tra loro veicolo di vita e di conoscenza. Il senso
ultimo dell’esistere, l’ansia di libertà, la dignità anche dell’ultimo
degli uomini, il coraggio e il dolore… retaggi di una
civiltà che dai poeti giungeva ad Elena, vennero illuminati dal messaggio di
Cristo: ma questa di Elena fu sempre una religiosità incentrata sulla
conoscenza senza illusioni o falsi pudori, e sulla pietà, più vicina all’esempio
evangelico e francescano che ad ogni altra corrente o esperienza o ideologia.
Alla verità che
nasce nella carne che soffre, nella coscienza che sceglie, Elena dedica tutta
la sua vita, mettendo a frutto il dono della poesia che il padre le ha
trasmesso: poesia che non ignora nulla del male e dell’abiezione più turpe, poesia
come limpida insostituibile parola, che nella sua fedele lucidità tende incessantemente
ad un oltre, ad un più pieno significato, ed è, sempre, pietà nel dolore, e
libertà di fronte ad ogni abisso nullificante, come ad esempio quella religione
del nulla che del nazismo è l’ultimo significato, e non è scomparsa
dall’orizzonte del nostro vivere.
Elena Bono ha proposto in forma nuovissima, raffigurando
percorsi e vissuti concreti, tematiche e
propositi, protagonisti e miti del mondo classico come della più tragica
contemporaneità, portando nelle sue
opere l’orizzonte culturale greco e romano, le origini della cristianità,
vicende medievali, donne e dee, uomini abbietti ed eroi e il mondo fascinoso e misterioso del
Tigullio: e nel rappresentare
il complesso e drammatico cosmo della condizione umana, ha saputo redimerne la
negatività nella misericordia, ha reso presente nel quotidiano l’Assoluto. Liriche,
teatro, come anche le opere di narrativa, mettono in scena quel mondo
interiore a noi tramandato nei secoli con la scrittura, ma che Elena Bono intuisce e rappresenta nel
nascere, facendolo rivivere direttamente nei protagonisti.
Ai giovani la sua scrittura può offrire la
cifra per entrare negli orizzonti più diversi, dove la storia diventa storia di
uomini e i sentimenti, le idee, le lotte si lasciano scoprire nella loro
grandezza. E per tanto la storia può, se proposta così nel suo farsi, nella sua
genesi, aiutare a dar forma ed espressione alle emozioni, ai desideri, ai
progetti… e diventare contemporaneità da decifrare.
Tutto questo nella bellezza di una parola
che appare semplice perché efficace, limpida e vera, che non rifugge dagli
abissi orrendi del male, che non mistifica e non tradisce, non addolcisce e non
inganna. E pertanto non è mai banale e sa gettare, su ogni contenuto espresso,
una luce nuova e rivelatrice.
Un solo esempio: leggiamo Morte di
Adamo, una delle più drammatiche evocazioni, nelle ultime ore di Adamo, del
dramma che unisce per sempre anche nel male l’uomo e Dio, l’uomo che uccide Dio
perché ha avuto la libertà.
Il racconto incentrato
sul dialogo tra Dio e Adamo che si appressa alla morte prepara al sentimento
della colpa e al mistero della Redenzione. Il dramma sacro che vi si celebra
eterna il dolore che riecheggia nel cosmo tutto, per l’uomo che uccide il
fratello e in lui uccide Dio. La vicenda va oltre il tempo, si fa
attuale con la morte di ogni uomo, si consacra nel mistero della morte di
Cristo. Adamo si fa responsabile del delitto di Caino, e piangerà per sempre il
dramma di ognuno dei suoi figli. L’innocenza violata, il mistero del male, del
dolore e in ultimo il senso della libertà assumono in questo breve scritto una
dimensione potentemente universale. Non è possibile reggere a un tale strazio,
se non affidandosi ad un aiuto che
trascenda le forze umane.
Morte di Adamo si
eleva a simbolo del drammatico ultimo confronto nella libertà tra l’uomo e Dio.
Molto altro ha scritto
Elena Bono, continuando nella solitudine, nella meditazione, e pure nella gioia
dell’amore e delle amicizie che le tessevano attorno una rete profonda, e
soprattutto ascoltando, ché una potente visione o una voce autorevole dal suo
profondo Sé le dettavano quelle pagine che restano adesione intima alla
realtà e movimento continuo verso l’altrove, verso il mistero.
Mistica, certo, la sua capacità
evocativa, ma insieme realistica, come nella bellissima traduzione da Sofocle
di Antigone, Edipo re ed Edipo a Colono,
esemplare per la semplicità, la naturalezza, la vivacità schietta e popolare
del linguaggio, al punto che Pasolini ne apprezzò e ne apprese la lezione.
Tradotta in inglese, francese,
spagnolo, greco, ceco, portoghese, arabo, svedese, Elena Bono ha incontrato
forse più attenti lettori all’estero che in Italia, anche se già Emilio Cecchi, poi Stas’ Gawronsky, Elio
Gioanola, Francesco De Nicola, Roberto Trovato, Giovanni Casoli, Daniele
Capuano, Andrea Monda… e ancora registi e attori, come Ugo Gregoretti,
Salvatore Ciulla, Daniela Ardini… le hanno riconosciuto l’autorevolezza che
travalica il tempo.