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Graphìe n.107 – In margine ai labirinti di Emilio Villa

Vi riporto il mio articolo In margine ai labirinti di Emilio Villa pubblicato sul numero 107 della rivista Graphìe

 

 

In margine ai labirinti di Emilio Villa

di Donatella Bisutti

 

È stato presentato nei giorni scorsi alla Biblioteca Braidense di Milano il ponderoso volume di Gabriella Cinti dedicato alla figura e all’opera di Emilio Villa e in particolare all’analisi di alcuni Labirinti inediti, riprodotti in originale, dal titolo All’originedel divenire: il labirinto dei Labirinti di Emilio Villa, edito da Mimesis. Un lavoro di grandissimo valore scientifico, nato da una passione autentica e che ritengo rimarrà fondamentale per lo studio di una figura sorprendente ed elusiva del nostro Novecento. Lo studio della Cinti è un’opera germinativa, da cui si ricavano molteplici stimoli e mi ha suggerito alcune considerazioni che riporto qui.

Quello di Emilio Villa è un esito estremo di quella disgregazione del significato e al tempo stesso di quel fallimento della parola poetica in quanto inseguimento dell’Assoluto continuamente perseguito e continuamente eluso e votato allo scacco, che segna la cultura europea del Novecento a partire da Mallarmé e che trova una delle sue massime espressioni proprio in Francia con autori come Blanchot, Derrida, Artaud, Roland Barthes, per citarne solo alcuni, e in particolare nella voce di un poeta di origine egiziana ma naturalizzato francese, Edmond Jabès, che ho avuto la ventura di introdurre per la prima volta in Italia, prima sull’Almanacco dello Specchio di Mondadori che allora, diretto da Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, rappresentava un riferimento imprescindibile nell’ambito della poesia, e successivamente in volume per lo “Specchio” Mondadoriano.

Una cultura francese che praticava lamise en abyme, secondo un termine coniato da Gide, e non è un caso che Villa abbia trascurato la lingua italiana per lui troppo piana, squadrata e univoca per quella francese più propensa a frantumarsi nel suono e a moltiplicarsi a cascata nei calembours, il che non è estraneo al fatto che nel Novecento la Francia sia stata la patria ideale della sperimentazione linguistica di cui Emilio

Villa si può ben considerare in Italia il massimo esponente.

In particolare ritengo che ci sia una forte rispondenza fra Villa e Jabès perché entrambi hanno cercato un punto di contatto fra una sapienza antichissima – quella della Kabbala ebraica per Jabès e quella delle antiche culture sumeriche per Villa – e gli strumenti della moderna linguistica e dello strutturalismo. Entrambi hanno messo in atto una convergenza fra questi due piani per attingere a un Assoluto che si rivela tuttavia inattingibile, in una continua interrogazione, continuamente elusa, teorizzata da Jabès già nel titolo del suo smisurato Livre des questions. Entrambi, Villa e Jabès, hanno privilegiato l’interrogazione e dato risalto all’impossibilità della risposta. Entrambi hanno fatto del Labirinto, che Jabès ha chiamato Erranza, la somma metafora di una ricerca impossibile.

Il tentativo, che ogni volta conduce al fallimento, di Emilio Villa di uscire dal Labirinto è l’Erranza stessa di Jabès nel Nulla del deserto e –visto con l’occhio della realtà che stiamo vivendo oggi – può essere letto come un tentativo emblematico di una cultura europea, fino ad allora egemonica, che nel Novecento è giunta alla sua estenuazione, è giunta in qualche modo al suo capolinea.

Un’Europa che, dopo aver affermato per secoli un’istanza di Assoluto e una corrispondenza fra pensiero e realtà, improvvisamente, nel corso di due guerre mondiali, ha divorato se stessa e i suoi figli come nel mito di Saturno, riempiendo di ossa terreni altrimenti destinati alle culture. Una Europa che si era impegnata due millenni fa a distruggere la polisemia fluttuante del Mito per mettere al suo posto l’Assoluto coercitivo del Dogma, per poi sostituire l’assolutismo monoteistico con quello altrettanto rigido e coercitivo della Ragione e successivamente della Scienza e del Progresso.

Il Novecento provoca la frantumazione dell’Assoluto, del Dogma, del Logos, una frantumazione che fa posto tuttavia non a un senso di liberazione ma a una nostalgia, a una malinconia che Gabriella Cinti ha ben individuato nell’opera di Villa. Una cacciata dall’Eden, anche se questa volta si tratta dell’Eden della Ragione: questo è stato il Novecento.

Emilio Villa vuole compiere un cammino à rebours, tornando alle origini, a una fonte primigenia in cui il linguaggio, soggetto a una frantumazione senza fine nei suoi elementi risalenti all’indietro verso un tempo mitico, possa alla fine ricomporsi in un Vuoto che è il Nulla che tutto contiene, da cui tutto germina. E a questo fine deve distruggere la Parola in quanto Significato, la parola in quanto presa sulla realtà, fonte di sicurezza e di dominio per l’uomo. Un linguaggio di Significanti al di là o al di qua di qualsiasi significato e in perpetuo divenire e perpetua trasformazione è il sogno che Emilio Villa persegue e che gli fa sanguinare le mani e la penna. Perché questa sua quete si avvera essere solo un aggirarsi nel Labirinto: proprio attraverso questa ricerca che è avventura della parola, la fede votata per secoli dalla cultura europea all’Assoluto si dimostra alla fine ingresso in un labirinto che ha solo due alternative: o un’uscita che è in realtà un ritrovarsi a un punto iniziale o l’incontro al centro del labirinto stesso con il Minotauro, ovvero la mostruosità di un’animalità irrisolta che perseguita l’uomo occidentale.

E così anche l’Europa in questi decenni ha finito per essere divorata da quel Minotauro rappresentato da due guerre mondiali che nonostante pseudo vittorie l’hanno con-al decadimento e alla fine di qualsiasi certezza, ma, non paga della lezione, sembra volersi accingere a una nuova guerra. Guerra non certo eroica ma che fa in anticipo i conti degli investimenti sui cadaveri.

L’Europa – leggendo l’opera di Emilio Villa come una grande metafora, ma metafora è sempre l’arte rispetto alla vita – non può tornare all’infanzia, a quell’infanzia dell’origine che Emilio Villa ha cercato di esplorare risalendo verso la sorgente attraverso gli etimi. L’Europa non può tornare a essere la fanciulla pura non ancora violata da Zeus. Perché è solo lo sguardo dell’infanzia – uno sguardo che fa coincidere perfettamente soggetto e oggetto – che può costituire la risposta alla ricerca di Emilio Villa della parola trou, quella che permette il passaggio, della parola-cosa, della parola delle origini, della parola in cui tutto ha insieme inizio e fine, il proton eschaton come egli lo chiama.

Per il bambino la parola – che egli scopre mano a mano cha va scoprendo la realtà, la parola che egli mangia come la parola manducata di Marcel Jousse, è per lui tutt’uno con la cosa, è la cosa stessa che egli incorpora. In questa parola soggetto e oggetto coincidono: perché egli stesso è la parola. La sua parola è perciò magica, come quella degli antichi sciamani che si confondeva con i versi degli uccelli, recupera la capacità di dar forma alla realtà, anzi di animarla, di suscitarla, divenendo pura energia, tutt’uno con l’energia che costituisce la materia, non massa immobile ma vorticare di atomi, si fa essa stessa materia mentre la materia attraverso la parola diviene psiché e così, solo così recupera l’innocenza e la totalità primigenia.

Ma questa origine posta all’inizio della vita di ogni uomo si perde man mano che egli si avvicina alla sua fine perciò proton e eschaton, i due termini che Emilio Villa si sforza di mettere insieme, non possono coincidere. L’uomo giunge alla fine della sua vita avendo perduto tutta la sua innocenza. Ma cos’è questa innocenza dello sguardo del bambino, cos’è questo suo manducare la parola? È il suo vivere la realtà senza il distacco creato dalla coscienza, dalla consapevolezza, che lo pone al di fuori, che è immediata separatezza, frattura fra parola e realtà. Il bambino coincide con la totalità del suo essere, con la totalità della realtà e la totalità dell’istante che sta vivendo: in lui il tempo è passato presente e futuro indifferenziati e compresenti: egli è tutt’uno con la realtà come prima di venire al mondo era un tutt’uno indifferenziato con la madre. È l’Aion dei culti misterici di Alessandria d’Egitto e di Emilio Villa. Che un pensiero in cerca di consapevolezza possa cogliere l’assoluto della totale inconsapevolezza primigenia: questo è il paradosso impraticabile del Labirinto di Villa e del labirinto in cui ci aggiriamo noi tutti, mentre il Minotauro mostruoso ci attende per balzarci addosso.

Il bambino coincide con tutto il suo essere con l’istante e questo istante come affermava Montale è l’Assoluto. Ma l’allontanamento critico, il pensiero del soggetto in quanto soggetto, perde la valenza vitale, emotiva, mitica della parola. L’uscita dall’infanzia la perde per sempre. Ecco quindi perché l’uomo vive questo paradosso di camminare con il capo volto all’indietro verso un eden perduto. E se così cammina ogni singolo uomo, così cammina anche la nostra stanca logora civiltà che si abbevera ormai ad acque virtuali.

Quella della Parola allora non può che essere quell’eterna nostalgia che Gabriella Cinti acutamente rintraccia nell’opera di Emilio Villa.

Ma bisogna anche dire che il filosofo rumeno Lucian Blaga, morto nel 1961, poco o niente conosciuto in Italia, cui è intitolata l’Università di Sibiu, nella sua Trilogia della Conoscenza, che nessuno ha ancora mai tradotto in italiano, afferma che a un defunto dogma della Verità Assoluta debba sostituirsi il Mistero e la sua necessità come nuovo dogma. E invece di cercare di avvicinarci al Mistero tentando di penetrarlo, dobbiamo preservarlo perché solo preservando la fede nell’inattingibilità del Mistero, senza volerlo disvelare, infrangere, solo così possiamo trovare il senso della nostra vita. E così anche la parola della poesia io credo che debba alludere al Mistero ed esserne custode. Solo così può tornare a essere parola totale, parolacosa, parola creatrice, e darci un brivido di Assoluto come ce lo dà la parola di Saffo.

 

Copertina e colophon GRAPHIE n107 Elogio del Paesaggio
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