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Laura Cantelmo

Una diversa Medea

Laura Cantelmo si è confrontata con la famosa Medea di Euripide per darci una sua interpretazione, in parte ispirata a quella di Christa Wolf, che abbiamo il piacere di pubblicare qui assieme al testo greco.

Euripide, Medea (431 aC.)

MEDEA – Donne di Corinto, eccomi, sono uscita dal  palazzo, così non avrete nulla da rimproverarmi.(…) Bisogna conoscere l’animo di una persona a fondo e non odiarla a prima vista, senza che ci abbia inflitto alcun torto. Certo,  uno straniero deve adattarsi agli usi del paese che lo ospita. La sciagura che si è abbattuta su di me mi ha schiantato. Non provo più gioia a vivere (…) Il mio sposo era tutto per me e si è rivelato il peggiore degli individui. Fra tutte le creature dotate di anima e di intelligenza, noi donne siamo le più sventurate. Intanto dobbiamo comprarci con una robusta dote un marito , anzi un padrone del nostro corpo  (…) e la separazione è infamante per una donna . (…) Io sono sola, priva di patria, sottoposta agli oltraggi dell’uomo, che mi ha portato via come preda da una terra di barbari. (…) Una donna in genere è piena di paure, è vile di fronte all’azione violenta, e alla vista di un’arma. Ma quando ne calpestano i diritti coniugali, non esiste essere più sanguinario. Il mio sapere suscita la gelosia o mi fa ritenere (…)  una nemica.

Creonte, lasciatemi rimanere in questo paese. Io sopporterò in silenzio l’angustia patita: siamo vinti dai più forti.

Giasone, andare a letto con una barbara non comportava per te una vecchiaia gloriosa.

Svanito è il rispetto del giuramento, scomparso il pudore della grande Grecia.

GIASONE –  Un’indole selvaggia è un disastro irreparabile- (…) Avevi la possibilità di risiedere in questo paese, (…) ti bastava adattarti senza recalcitrare alle decisioni di chi conta. 

da Euripide, Medea – Ippolito, trad. dal greco di Umberto Albini, Garzanti, Milano 1999

Laura Cantelmo, Medea (2019)

Gente di Corinto, voi superbi custodi di superiori geni,
del vostro odio io non so che farne.
Sono qui, barbara e donna, ricca di arti e di saperi che voi
ignorate. Voi che al potere sacrificate il cuore, voi che 
non sapete il nero del mio mare, che ulula immane sotto
la geometria del cielo di cui fui figlia, sorella e ladra
del vello maledetto .
Ferite di spade nelle mie membra furono e sono l’odio,
l’indifferenza verso di me, donna, fino all’accusa orrenda
che affila la vendetta.
In Colchide la luna è sempre immensa – all’alba si veste di nuvole
e di bianco  e solleva leggera il sole dalle onde.
Per questo oggi indosso il bianco peplo – quello di Artemide,
sempre al mio fianco.
Imperdonabile resta di me la sapienza dei fiori e delle erbe –
barbara nata tra orizzonti lontani, al confine della terra,
distillo elisir contro il dolore – ecco il peccato che incrina
la mia storia – ho tradito mio padre rubando il vello d’oro 
e sconto la mia pena.
Un tempo dilatato mi rapì ai Colchi. Gonfiando di tempesta
le vele di Argo inseguivo la lusinga di Giasone che mi donò
l’amore e i figli. Barbara e selvaggia, ho amato e fui riamata
con passione bruciante.
E’ Corinto la dannazione. La sete di potere aggroviglia 
gli umani. Aveva brama di regno sopra ogni cosa, Giasone :
i miei bimbi adorati e io, sua moglie, ripudiati.
Ora la sua voce lontana lacera in un rantolo la brezza – lungo
il sentiero abbandonato dagli dei il suo corpo giace
convulso sulle ceneri della mia rivale, di colei 
che Creonte gli diede in sposa. Io stessa le ho donato
il magico manto che l’ha sfatta. Ora, per pugnalarmi
mi avete rapito i figli. 
Libera e dolente in un mondo di folli, per Corinto
superba s’impenna il mio respiro. Mia terra è 
la Colchide, terra di pace nel contrasto dei venti – lì sono
donna, qui non sono nulla. 
Voi, donne corinzie, segregate nelle case, non conoscete
le libere donne della Colchide, il loro fiero ardore.
Nella mia pelle d’ebano, nei folti ricci neri, nelle lame 
del mio sguardo trovaste la ragione del rifiuto – sulle mie 
spalle tornite riversate le colpe dei vostri maschi e ora
anche l’accusa brutale che ripugna a ogni madre – di aver
soppresso i figli.
Quel crimine è vostro. Vostra la volontà d’infangare la straniera.
Ora che mi hanno strappato i figli insieme al cuore,
non mi resta che un eterno vagare, se mai avrò meta..
Come corde tese nell’aria, le mie urla sono la maledizione
che seccherà le spighe e le foglie d’acanto e a lungo piagherà Corinto. 

Laura Cantelmo

Laura Cantelmo è nata a Biella e ha studiato Lingue e Letterature Straniere all’Università di Torino. Ha insegnato lingue e letterature inglese in un liceo, collabora alla redazione delle Edizioni Punto Rosso. Ha fatto parte della redazione della rivista InOltre (Jaca Book). Si è interessata dei poeti anglo-caraibici Grace Nichols e James Berry. Fa parte del direttivo dell’associazione Milanocosa dal 2004, ha pubblicato saggi: Invito alla lettura di Ezra Pound, Mursia 1978 e  altri sulla letteratura angloamericana. Suoi contributi critici sul sito dell’Associazione Milanocosa e su riviste: Il segnale, Traduzione/Tradizione, Inoltre, La Mosca di Milano, Poesia. È autrice delle raccolte poetiche Un altrove quotidiano (Joker 2005) e Geometrie scalene (Marco Saya, 2015).

Abbiamo chiesto a Laura Cantelmo di raccontarci com’è nata questa sua Medea

Ho sempre sentito profondamente  il fascino del personaggio di Medea, così tremendo perfino nell’abiezione che dal testo di Euripide emerge con forza,  offrendo poche  possibilità di riscatto a una donna, la cui personalità si afferma comunque con tale fierezza e tenacia da rendere  grande  persino la violenza dei suoi sentimenti derivanti dalla libertà consentita alle donne della sua terra e dall’orgoglioso rifiuto di piegarsi al volere di Creonte e di Giasone. In Euripide il Fato non ha più la rilevanza a cui ci avevano abituati gli altri autori tragici, ma sono gli uomini stessi a causare dolore e disgrazia. Se pensiamo al rapporto tra Giasone di Medea, donna che per amore si è data totalmente a lui tradendo la propria famiglia d’origine, è l’avidità del potere che spinge quest’ultimo a infrangere il loro legame. L’origine barbara di Medea, i suoi poteri magici, la libertà consentitale dalla cultura della Colchide da cui proveniva, hanno sicuramente reso più facile di fronte alla società del tempo l’accettazione dell’abbandono e del ripudio. E tuttavia è stata in qualche modo individuata da Euripide  la sua disperata solitudine di donna straniera, impossibilitata a tornare in patria  allorché viene bandita da Corinto in seguito alle nozze di Giasone con la figlia di Creonte.

Quanto a Christa Wolf e alla sua rilettura di alcune figure femminili del mito greco, come Cassandra e Medea, ebbi l’onore di assistere molti anni fa alla presentazione del suo testo incentrato su Medea – tradotto in italiano per le edizioni e/o – alla Fiera del Libro di Torino. Il lavoro compiuto dalla scrittrice femminista  tedesca sul trattamento dei personaggi femminili nel teatro classico, basato sulla concezione della donna – presente anche in Aristotele e risultata poi fondamentale per la nostra cultura – si fonda su documenti già noti nell’antichità, come la testimonianza di Apollonio Rodio, poi riscoperti da studiosi moderni. Nel caso di Medea colpisce  la potenza del personaggio e come esso si scontri con il disprezzo dei corinzi verso la inaudita fierezza della donna nella sua condizione di straniera , in quanto estranea al mondo greco  la cui vantata superiorità veniva messa in discussione dal confronto con la “barbara” Sparta  nella trentennale Guerra del Peloponneso, iniziata proprio nel 431 a.C., anno della prima rappresentazione della tragedia euripidea. 

Non conoscendo il greco, non ho letto le tragedie in lingua originale, ma amo  il teatro greco, capace di offrire personaggi grandiosi che agiscono all’interno di situazioni estreme sia nell’errore che nella pena catartica. Non è stata estranea a questa mia passione la lettura del testo di Nietzsche  sulla nascita della tragedia.

Pur non avendo mai assistito agli spettacoli del Teatro Greco di Siracusa, ricordo che molti anni fa al Piccolo Teatro Studio ebbi l’opportunità di apprezzare Ottavia Piccolo in una grande Medea ed ancor oggi amo vedere e rivedere il monologo recitato da una straordinaria e intensa Mariangela Melato, disponibile su YouTube.

Non ho ancora avuto occasione di assistere alla tragedia Eracle per la regia di Emma Dante, verso la quale nutro enorme stima, ma dalle critiche rivolte alla sua produzione per il Teatro di Siracusa affiora lo sconcerto di un pubblico adagiato sulla più immobile tradizione.

Inevitabilmente la Dante sconvolge e fa riflettere per il suo sovversivo concetto di teatro, che Brecht adorerebbe, credo, essendo basato sul continuo capovolgimento del dejà vu e quindi sul concetto di straniamento, strumento adatto a un teatro didattico.

Non avendo mai scritto per il teatro, mi fa molto piacere che questo mio testo sia stato ben accolto al punto da esserne stata proposta una lettura teatrale, ancora in via di definizione.

Christa Wolf

dalla postfazione di Anna Chiarloni, alla Medea di Christa Wolf, trad. di Anita Raja, edizioni e/o, Roma 1996:

“La scrittrice  (Christa Wolf) rintraccia una figura diversa: una  donna travagliata sì dall’amore, ma ancor più dall’incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla violenza. Non un’infanticida, dunque, al contrario una donna forte e generosa[. …] che una società intollerante emargina [. …].  La  Wolf rielabora  frammenti di un mito  provenienti da fonti diverse, attestate soprattutto da Apollonio Rodio. 

Mariangela Melato, Melea
Medea di Euripide con la regia di Gabriele Lavia
Verso Medea, Testo e Regia Emma Dante
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