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Mauro Macario

Poeta anarchico
figlio d’arte e della Beat Generation

Mauro Macario è nato a Santa Margherita ligure nel 1947. Figlio dell’attore Erminio Macario, è poeta, scrittore, e regista. Ha pubblicato nove libri di poesia : Le ali della jena (Lubrina, 1990), Crimini naturali (Book editore, 1992), Cantico della resa mortale (Book editore, 1994), Il destino di essere altrove (Campanotto, 2003), Silenzio a Occidente (Liberodiscrivere , 2007), La screanza (Liberodiscrivere, 2012), Metà di niente (Puntoacapo, 2014), La débacle des  bonnes  intentions (La rumeur libre, Vareilles, 2016), ed infine l’opera omnia che racchiude tutta la sua produzione poetica , Le trame del disincanto (Puntoacapo, 2017). Del 2004 è il suo romanzo  Ballerina di fila.  Partecipa con i suoi reading  a numerosi festival di poesia sia in Italia, sia all’estero, soprattutto in Francia. Per vent’anni ha interpretato i testi del suo Maestro e amico Léo Ferré al festival  di San Benedetto del Tronto  a lui dedicato. E’ presente in numerose antologie con poesie e saggi.

AUTOPSIA D’AMORE
a mio figlio

Taccheggia lungo il corridoio
a passo d’uccello
come una cicogna cattiva
dal profilo di falce
a guardarla così è pure elegante
distaccata
altera
le mani da pianista
invece squarta
è una macellaia di Stato
seziona e ricuce
al mattatoio giudiziario
ligia al suo dovere
di operaia specializzata
alla catena di smontaggio
dove rottama le salme in esubero
senza fermare i ritmi di produzioneosserva distrattamente
– lei sì con occhi vitrei –
l’estraneo allungato sul tavolo
pronto alla mattanza
è nessuno
freddo e rigido
come un suppellettile
in una casa abbandonata
è nessuno
non appartiene alla madre
né al padre
è proprietà dello Stato
che ne fa libero scempio
e spettacolo didattico
per un loggione di matricole

ora lo gira su un fianco
poi sull’altro
sa bene il suo mestiere
la cicogna cattiva
col becco ricurvo
come un uncino da asporto
che fruga e saccheggia
un’identità sottratta al mio sangue
ad una carne condivisa nel crearsi
dunque anch’io vengo macellato
attraverso la mia progenie

il suo taglio blasfemo
lo fa uscire dal sogno
come un palloncino sfuggito di mano
e rincorso in quell’eco d’infanzia
rimasta nei tratti a mostrare la sua forza

contro la logica occidentale della morte
dove cattolici e laici si trovano d’accordo
a non rispettare il corpo inerte

profanarlo
con le sue chele smaltate
profanarlo
con asettica meticolosità
offende la sua anima terrestre
quello che ha vissuto
come ha amato
i suoi pensieri
lei offende il Tao
e se stessa
in cortocircuito
con l’armonia degli elementi
ma lo shen
non potrà farlo a pezzi
su quel bancone da pescivendola
dove lo ha eviscerato
e ripulito con la canna dell’acqua
come si fa al mercato a fine giornata

quel corpo è il corpo del mondo
adesso lasci fare a me
mi guardi
si fa così
raccolgo
non asporto
raccolgo tutta l’età
anno dopo anno
lo sguardo che aveva
la tristezza di solitudini sconosciute
il suo sopravvissuto odore di latte
le tragiche miserie che lo hanno abbattuto il liquido lucente dei suoi occhi
e ricompongo

impari
è un’occasione per capire
un’autopsia d’amore

RESIDENZA PER ANZIANI

Cosa fa mia madre busto di cera su carrozzella volante
un bagaglio spostato qua e là
da facchini maldisposti a cambiar marciapiede
in questa stazione dove un treno che parte
non ritorna mai indietro
e non sa che a parlarle è suo figlio
interrogare lo sguardo non serve
a quel cieco torpore che di bruma l’ avvolge
e impedisce alle sue mani venose il più piccolo segno
o forse sono io che non riesco a sentirla
da quel finestrino dove ha già preso posto
e sistemato un passato pesante che a trascinarlo
l’è costata fatica
la separa da me un’infinita distanza
che non so misurare se non con la sua stessa afasia
forse vuol dirmi che i passeggeri viaggiano soli
e a quest’ora nessuno più li accompagna

Ho imparato a memoria un copione ingiallito
che bene s’addice a questo scenario
vecchi folli che l’autunno incupisce
e incatena a una gabbia dorata
(chissà che un giorno qualcuno non spacchi quei vetri
e con le ultime forze vada a stremarsi sul mare)
ripeto ogni volta l’identica storia
sperando che le giunga un ricordo
perché la memoria malata ne vieta l’accesso
ed è una donna morta che contempla se stessa
ma sono anni che parlo da solo
e mia madre è un’immobile sfinge
che non sussulta ai nomi che dico
né un fremito vago percorre quel viso
là dove il mio assedio cerca d’entrare
da una segreta ferita del tempo

Perché mai d’improvviso
oggi allunga la mano
deformata e tremante
come spingesse un macigno in salita
a cercarmi la guancia
a deporre una lapide
in quell’ antica carezza
troppo tardi espugnata
da lontananze sepolte
meno le dita

Madre mia
non dirmi amore
con voce spezzata di lupa morente
è un colpo al cuore che stasera non reggo
e tutta la vita mi torna davanti
i tuoi nervi elettrici che mi folgoravano
fino a perdere i sensi
svenire e rinvenire
sotto scariche continue
di un circuito alterato
nei suoi componenti anaffettivi
e poi esserti fantasma
che ti danzava intorno come Nijinsky
i ballerini volteggiano ovunque
anche nel ghiaccio
i fantasmi non soffrono il freddo
i fantasmi ci ridono sopra
ma il tuo gelido fiato
ancora soffia pungente da una tundra interiore
spopolata da un esodo in massa
quella parola è un affondo mortale
ho lavorato tanto per combatterti dentro
perché richiamarmi nel tuo ventre ormai secco
proprio ora che non ti è concessa
nessuna forma di genesi nuova
né procreare né riparare
il tuo corpo afflosciato e scarno muove a pietà
e che un giorno abbia dato la vita
pare quasi impossibile
cosa sono stato non so
forse un feto prematuro che l’uscio ha forzato
scappando anzitempo dall’ampolla pulsante
senza più trovare fissa dimora in un ventre casuale.

Mare di Ostia
Pier Paolo Pasolini

Ostia di carne sangue di mare mare
di sputi livida risacca
un padre della patria boccheggia
con la terra nei polmoni
sepoltura di un popolo
nel silenzio dei chiostri
nella memoria partigiana
nel mondo contadino
questa morte nazionale e multinazionale
chiude un’era e passa alla preistoria
si porta via tutto
i musei le biblioteche i testamenti morali
il lievito madre di una coscienza secolare
noi eredi di una compassione gelida
noi figli di questa morte
pasticciata vilipesa derisa
che ci ha trasformato da miti arcaici
in barbari civili
vaghiamo ciechi in una necropoli
senza reperti
le pergamene sono sparite
rimane un ossario senza gloria
e i mandanti si susseguono
di generazione in generazione
mentre i padri della patria
quelli che hanno formato
il tuo sentire più profondo
non muoiono nel loro letto
ma nell’inconscio collettivo
ed è lì il funerale della nostra storia


Tre Poesie da Le Trame del Discanto

Dialogo con Donatella Bisutti

Che cos’è per te la poesia?
La poesia è preesistente all’atto stesso della sua creazione, decide lei dove andare e chi inseminare e non bada al veicolo, alla  scocca, che la porterà in luce. Possono essere i versi su un libro, il quadro di un pittore, il film di un regista, una canzone d’autore. Questa preesistenza l’aveva ben individuata il mio maestro e amico Léo Ferré che allo stesso quesito aveva risposto “ Je suis dicté “, cioè sono trascritto, agisco sotto dettatura, vengo guidato. E’ dunque un fenomeno misterico, l’ho verificato quando, ad esempio, mi prefiggevo di  scrivere una poesia malinconica e invece mi ritrovavo sul foglio versi collerici. Tutto questo in  un’epoca timbrata dal pensiero matematico che usa il bisturi della vivisezione invece della propria visceralità ormai esangue e asfittica, potrà far sorridere. Eppure dopo tanti secoli tu mi chiedi: cos’è per te la poesia. Come succede ritualmente ai convegni o agli incontri con gli autori. Ma nessuno più si chiede cos’è il cinema, il teatro, la scultura. Non è misterico ?


Ti ritieni un outsider?
Bè, non so essere un saggista di me stesso. Penso di sì ma non perché questo sia necessariamente un plus valore. Non trovo facilmente punti di congiunzione fra il mio linguaggio poetico e quello di altri, ecco tutto.  Dipende forse che non ho una provenienza universitaria, che i miei tracciati formativi sono frutto di una partenogenesi tipica dell’autodidatta. Credo però che essere outsider derivi più dalle mie urgenze contenutistiche legate a una percezione critica e reattiva di stampo anarchico. Di conseguenza non ho mai avuto freni inibitori o esitazioni su qualsiasi argomento. Ho vissuto un’adolescenza dove la beat generation e i suoi cantori (Ginsberg, Kerouac, Corso, Ferlinghetti) è stata fondamentale per me. E nel tempo Baudelaire, Rimbaud, Bukowski. Ma tutto è nato con la lettura  di Cesare Pavese, il più amato. Poi, nel corso degli anni, l’incontro con Léo Ferré mi ha cambiato la vita.


Come hai vissuto la condizione di figlio d’arte?
Ho amato mio padre come fosse anche mia madre e, malgrado l’età avanzata, lo rimpiango con il sentimento commosso dell’orfano abbandonato. Era un uomo nobile, moralmente limpido, intellettualmente onesto. Pudico nei sentimenti, come lo sono i piemontesi, ma con radici forti. Non aveva paura di nulla per via di una giovinezza durissima. Era la mia quercia. Viveva per il suo teatro con un’adesione totalizzante. E’ stato un comico surreale, funambolico, un Pierrot lunaire. Diceva che aveva fatto Jonesco prima che Jonesco fosse nato. Un caso anomalo di poeta della comicità. Poesia talvolta crepuscolare. Come un vecchio, solitario clown. Gli ho dedicato due libri. Dal punto di vista sociale essere il figlio di una celebrità  è stata una zavorra che ha rallentato, impedito, e sovente vanificato tanti progetti abortiti per miopia o insensata diffidenza. E’ come aver faticato il doppio ( o il triplo) per ogni lavoro ottenuto.

Parlami delle tue esperienze teatrali.
Nel ’63 ho frequentato la Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Erano i tempi mitici di Strehler. Il nostro insegnante di recitazione era il grande poeta e regista Ruggero Jacobbi, oggi troppo dimenticato. Poi, per diversi anni, lavorai con mio padre, prima come attore, infine come regista. Scrissi per lui anche delle commedie. Nel frattempo debuttai come regista in cinema con un film drammatico sul tema della droga, poi passai in Rai per dirigere spettacoli musicali. A quarant’anni ebbi l’incontro magico con Lèo Ferré vivendo un’amicizia profonda e devota che, come dicevo, cambiò la mia vita. Abbandonai la regia e lo spettacolo popolare per dedicarmi completamente alla poesia che era il richiamo assopito che Léo risvegliò in modo dirompente. Voglio ricordare che Ferré  oltre che poeta, compositore e interprete musicò in modo magistrale poesie di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Apollinaire, Villon, Aragon, Angiolieri, e Pavese. Un’opera immensa e irripetibile. Ho avuto il privilegio di vivere un grande rapporto d’affetto con un genio del ‘900. Per trent’anni dunque mi dedicai esclusivamente alla poesia, ad eccezione di tre spettacoli : Macario il sogno di una maschera, Alma Matrix, di Léo Ferré, e Una stagione all’inferno, di A. Rimbaud. Essere giunto all’opera omnia  con il volume“ Le trame del disincanto “ ( Puntoacapo editrice)rappresenta per me il senso stesso della vita vissuta.

LA DONNA VIENE DAL MARE

La donna emerge dalle acque, scivola tra le dita, come un’alga spugnosa intrisa di sale, profuma di spezie orientali, di nocciolo selvatico; è lei la sorgente originaria che inonda la vita tra le aride crepe dei pensieri.

La sua vernice traslucida spalma d’estasi i portali d’ingresso, là, nei vicoli oscuri dove ombre affannate si intrecciano in nodi corporali e una resina brumosa sgocciola tra le labbra di una sconosciuta che la risucchia come da una mammella mai prosciugata.

Oh, i bei seni della madre universale

Alma Matrix.

Io sono il principe solitario degli alberghi a ore, il mio blasone è una nera lingerie che sventola su un regno di memorie. È sale grezzo questa donna, sale duro sparso sulla strada. Si vende a buon mercato, con patetiche formule di seconda mano: “Dai, grida, così, ancora…!” d’accordo stimolare, ma prima pulisciti il naso, quel naso da pagliaccio in seta cinese…

Oh, la seta cinese sul tuo corpo inviolato alle cinque del pomeriggio, l’ora in cui, dappertutto, qualcuno boccheggia e ansima agli scatti febbrili della mano, come boccheggiano e ansimano, credo, le stelle negli universi promiscui.

da Léo Ferré – Alma Matrix – traduzione di Mauro Macario

Recensioni alla Poesia di Mauro Macario – Estratti

Mauro Macario scrive da, di, un pessimismo non solo proprio dell’essere umano nell’universo, ma appartenente piuttosto ai cittadini del mondo occidentale. Che cosa può salvare? La scrittura, la parola, l’urlo, la ribellione di animi e di morali che non soffrono di pressione bassa da questo luogo mortifero più che mortale che è, dentro e fuori, un’”età impropria”, in cui “il destino di essere altrove” si può combattere con una voce che si fa istigazione alla giustizia.

Gemma Gaetani – Poesia

In un tempo lontano, originario, Macario ha imboccato la strada della scrittura ininterrotta di eluardiana memoria, nel solco dei sentieri che s’inoltrano in selve ignote, per quanto fin troppo battute. Vi si legga pure il modo in cui la memoria sfida l’usura del tempo, si tratti di un film, o di “un’orbita di Proust”, o delle “malinconie del mito”: che altro mai potrebbe accadere in questa che è “l’età dispersa”, dove allo spettatore restano le finzioni inimitabili, “gli abbracci degli altri” e il sentimento di una condizione abdicata. La rappresentazione screanzata in una poesia come questa – ultimo anello di una lunga produzione dell’Autore che meriterebbe altre considerazioni- significa sfidare “ il vento salmastro che brucia gli occhi” piuttosto che illudersi sulla salvezza o voler esorcizzare la fine.

Carlo Alberto Sitta – Steve

(…) E ritorna allora, col vigore del giovane ribelle capace ancora d’indignarsi, la protesta epocale contro un tempo di orrenda freddezza e di globale uniformità nel mediocre “l’arte svilita dal libero accesso in massa / dove chiunque è leggitimato a equivalersi”- contro la quale Macario ricorre perfino ai toni oratori e predicatori, come nei ripetuti incipit anaforici “Miserere mei” di La lampada di Aladino, di Il mio canto della omonima poesia e di Bisogna disimparare tutto, di Teoria del supplente.  E allora il bilancio dettato dall’immensa, agguerrita e subdolamente sotterranea, rivoluzione culturale che ha segnato i decenni a cavallo tra i due secoli non potrà che essere fallimentare, in una visione apocalittica alla quale non pare poterci essere scampo, tanto che alla fine anche un vecchio juke-box diviene un informe rottame e proprio nulla rimane, appunto Metà di niente, un inventario misero di misere cose…

Francesco De Nicola

Le poesie che qui leggiamo, malinconiche e infuriate, intime e sovversive, sono velenose punture nel cuore degradato della civiltà e dell’uomo, atti d’accusa individuali e sociali che lasciano il segno, nella pagina: anzi la cicatrice. La lingua asciutta, antilirica, narrativa del poeta, il suo andamento irregolare e prosastico, sono armi in più perché le vibrazioni affettive ed etiche abbiano maggiore risonanza: “mentre in un grill / l’uomo disperso raccoglie i suoi resti / tra un caffè indecente e un silenzio nucleare / a quell’ora più non risponde / a voci attutite impastate di neon / paga e riparte / lo aspetta quel viaggio / senza casello d’uscita / lontanamente”. (…)

Marco Ercolani

Giunto alla corte della poesia in età matura, Mauro Macario ha saputo, nell’arco di un quarto di secolo, convincere anche i critici più reticenti. Autore di biografie, romanzi, curatore di antologie, con Metà di niente è al suo settimo libro di poesia. Opera matura e profonda, si destreggia tra cifra esistenziale e indignazione civile, in una meditazione sul mondo e l’essere umano lucida e coraggiosa, che nulla risparmia o nasconde.

Fabio Simonelli – Poesia

L’infinito non sempre è immensamente grande ed esterno, può essere anche intimo e, per così dire, piccolo, poiché il mistero che ci circonda abita anche la nostra interiorità: se ce ne dimenticheremo, poeti come Mauro Macario non mancheranno di ricordarcelo.

Marco Furia

Bastian contrario, come il vento, la direzione (ostinata), bulesumme di esistenza, quasi d’un uomo in disarmo, capace di tanta struggente dovizia di emozioni gettate quasi per caso a metà strofa, un po’ per scuotere, un po’ per sorprendere (…)…è parossisticamente crepuscolare: ma uno va a leggere riga dopo riga pervicacemente a trovare un segno di vita, di umanità. E lo trova. Il libro ne è pieno.

Stefano Bigazzi – La Repubblica

(…) Testi che hanno spesso la lunghezza di un poemetto e versi lunghi che scorrono senza punteggiatura come un flusso poematico ininterrotto, a volte col tono di invettiva (Lettera al Presidente), a volte con immagini lussuose tra surrealismo e postmoderno. Versi che affrontano di petto la nostra realtà parlando di disfatte e paesaggi in rovina, di scorie chimiche, di sottoproletariato, di eutanasia e di discariche, e dichiarano guerra a un mondo in cui “ più non ci rincorre / il senso del sogno / perduto tra la polvere”. (…) Tuttavia, per il suo tono epico e il profluvio visionario di immagini, questa poesia va oltre una cosiddetta poesia impegnata o civile, e si avvicina a una forma epica, anche se a volte quasi epigrammatica. Nella seconda parte del volume prevale un tono più lirico, legato a ricordi e figure del passato, e sono le poesie più belle, spesso sorprendenti.

Donatella Bisutti – Poesia

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