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Gina Lagorio

Elogio alla Zucca

Anche quest’anno, a natale, ho ricevuto una placchette in edizione non venale che le figlie di Gina Lagorio, Simonetta e Silvia, mandano agli amici in ricordo della loro Mamma. Ricordo di cui io sono loro sempre molto grata, ricordando la mia amicizia con la scrittrice e in particolare quando “la Gina” veniva a casa mia, già malata, accompagnata dalle figlie, per partecipare alle riunioni dell’Asocazione Aria Protetta, da me fondata assieme ad Angelo Gaccione, per cercare – inutilmente – di fare causa al comune di Milano per i danni alla salute dovuti all’inquinamento. Impresa, come si vede, fallimentare a cui avevano anche partecipato alcuni nomi importanti della Cultura. Avevamo unito le forze allora anche con Dario Fò, oltre all’Associazione delle mamme che vedevano numerosi casi di asma fra i loro bambini.
Mi piace pubblicare qualche pagina di questo delizioso racconto di Gina Lagorio che parla della zucca e ne fa le lodi, ma ne approfitto, come ho già detto a Silvia e Simonetta, per smentirla: Non e vero che i poeti non lodano mai le zucche. Io personalmente ho scritto sulla zucca una poesia zen, nella quale a zucca simboleggia un cammino di umiltà nella spiritualità. E che qui anche voglio ricordare.

d.b.

Ti saluto e ti logo, la mia zucca ilare e gentile, inerme e generosa, spontanea e sorridente, che ti arrampichi senza fatica, senza fatica fai ombra, senza fatica regali fiori foglie frutti. non chiedi molto in cambio: ma di darti quello che vuoi, nel caldo delle sere di luglio e di agosto, com la lunga gomma che risale le tue volute e ti irrora e insieme irrora chi ti ama, è stata una gioia pura, uno dei molti piaceri dell’estate.
Ogni mattino alzandomi mi hai salutato in modo diverso: un dialogo ininterrotto variato, fiducioso si è stabilito tra di noi, giorno per giorno. E una volta era la serpentina dei viticci che aspettava me per sistemarsi più comoda sulla canna lungo il muro o sulle trasversali che sono pronte a prepararmi, per merito tuo, una tettoia di verde rinfrescante; e un’altra volta erano uno o due o tre giorni gialli, spalancati come bocche ridenti, o altri fiori più piccoli, più pudichi e timidi, come trombette pendule e gentili; un’altra ancora la sorpresa massima: una linguetta chiara, un filino argenteo, ma sì è un neonati, evviva!
[…]
Non sapevo più credere possibile che la zucca sia diventata sinonimo di stupidità. Ma allora adattarsi alla propria condizione e dare il massimo che si può, è segno di stupidità? O Macchiavelli, o Giucciardini o Giovanna Botero, o manigoldi cinici e scettici che ci avete ben preparato alle acrobazie dei politici e dei causidici d’oggi, solo gente della vostra razza può aver così calunniato la nobile zucca. “Chi disconoscerti cerchiato ha i lesso (e anche il cuore) di fredda tenebra”. Vorrei dirlo a gran voce, ma mi pare impensabile che qualcuno non l’abbia già fatto. Sarebbe la meraviglia nelle meraviglie: che nessun mistico, lodatore della bontà divina, nessun filosofo adoratore della natura, nessun pedagogista ammiratore della creatività spontanea, nessun cultore di Eros e della sua prolificità, abbia mai sentito il dovere, il bisogno, il gusto di cantare le glorie della zucca.
L’umanista di Plantina nel suo dotto saggio di conciliazione tra “il piacere onesto e la buona salute”, che rispecchia com’è noto i maestri antichi, naturalisti, medici, filosofi e per le ricette culinarie vere e proprie si rifà a Ma

Una poesia sulla Zucca

Ha enormi foglie, ciascuna 
alta contro il sole,
isola verde, parasole 
di carne vegetale. 
I fiori hanno il colore
della polpa 
– una macchina di pompe che risucchiano 
– un’enorme turbina. 
Avanza al suolo gigantesca 
sale con squilli lucenti sulla
rete metallica che cinge l’orto
verso un cielo come lei senza nuvole. 
Vittorioso cammino della zucca,
pianta sonora, altera
nella modestia. 
Eppure cauto: ad ogni passo dal grosso 
tubo turgido di un ramo ecco uscire i viticci,
oh così minuscoli, sproporzionatamente
esili, per una pianta siffatta-
come capelli o fili 
vischiosi, un po’ ripugnanti, 
si incollano come bava di lumache, 
hanno una vita a sé, si avvinghiano 
come mani alla rete, 
tenaci come dita di bambini
– una morsa delicata 
qualcosa di così apparentemente debole 
più difficile da spezzare 
del legno nodoso di un ramo 
– impossibili da sciogliere.
A questi piccoli passi si appoggia la pianta
come un animale che cammina 
e prima tasta il terreno, poi allunga 
la presa. 
Oculato, prudente cammino – un minuscolo 
passo per volta
– non sembra pretendere affatto 
di salire al cielo.

Donatella Bisutti

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